Intervista a Takoua Ben Mohamed

I: Takua, tu partecipi al dialogo del sabir Maydan “Donne in prima linea: un approccio femminista al dialogo interculturale”: quale il tuo contributo?

T: Sono una break journalist, per cui faccio commenti su tematiche sociali, culturali, di sfondo politico. Una delle caratteristiche del break journalism è il personaggio principale, ovvero l’autore che scrive: questo personaggio è una ragazza che porta il velo ecc. .. Attraverso le mie esperienze personali in Tunisia durante la dittatura di Ben Ali, ho vissuto la mia adolescenza e sono cresciuta come donna musulmana occidentale in Occidente. Ho voluto rappresentare questa mia doppia identità come donna appartenente a due culture: una di nascita e l’altra, per così dire, “adottata”. Parlare dunque della situazione che ho vissuto, che ha vissuto mia madre, le mie zie e tutte le donne che ho incontrato durante la mia infanzia in Tunisia. Durante la dittatura di Ben Ali, la donna veniva per certi aspetti discriminata, essendosi opposta alla dittatura: racconto quindi la mia esperienza attraverso dei fumetti-reportage che ho prodotto. Parlare anche di un’altra difficoltà, un’altra realtà che ho affrontato in quanto donna musulmana che porta il velo in Occidente ed è occidentale: la difficoltà che viviamo indossando il velo in Italia, avendo una doppia identità. Queste sono le tematiche e il mio contributo.

I: A questo proposito come giovane donna in Italia, incontri delle difficoltà ed eventualmente in che modo le combatti?

T: Quando parlo della donna in Tunisia sono troppo seria. Quando parlo invece delle donne musulmane occidentali in Europa sono troppo ironica, tendo cioè a smontare i pregiudizi in modo ironico. Sono tutte storie vere: è successo a me, ad altre persone; sembrano surreali ma invece sono successe veramente: siamo tutti molto condizionati dai media, e quello che dicono quando parlano di terrorismo è costante il riferimento alla religione, l’islam. Così lei, donna musulmana che porta il velo, automaticamente viene vista dai suoi vicini di casa, dai suoi compagni di università o al supermercato come donna musulmana, non è più identificata semplicemente come donna. Involontariamente o meno, viene dunque collegata a determinate tematiche.

I: Hai parlato delle differenze dello scrivere rivolgendoti a un pubblico musulmano piuttosto che occidentale, di come vivi questa tua dicotomia personale di donna musulmana in Occidente e fuori dall’Occidente: a quale pubblico pensi, ti rivolgi quando concepisci il tuo lavoro e come cambia, in questo senso, il tuo modo d’immaginare e raccontare le tue storie?

T: In realtà mi rivolgo a entrambi i pubblici. Quando parlo di donna tunisina mi rivolgo di più all’Occidente perché così come viene vista la donna musulmana, viene automaticamente concepita la donna araba in generale, ma il mondo arabo è vario: non ci sono solo donne musulmane ma anche di altre religioni come cristiane o ebree. La donna araba viene vista come sottomessa, ignorante, che non ha potere, che è vittima di una società maschilista, cose che in parte rispecchiano la verità, in parte no. Ho visto e incontrato anche tipi di donne che sono così, ma in gran parte dipende dal paese in cui vivi. Quando invece parlo di donna musulmana occidentale, mi rivolgo a entrambi i pubblici: in questo paese spesso non si rendono conto delle difficoltà che vive la donna musulmana nel contesto occidentale. Magari i miei vicini di casa mi vedono uscire ogni giorno per andare in accademia o a lavoro ma non si pongono domande su come io vivo. Ma anche dall’altra parte: se mi reco in Tunisia non sanno che difficoltà io affronto in quanto donna musulmana in Occidente, non solo da donna araba.

I: Come ti sei avvicinata alla graphic novel? Cosa ti permette di esprimere in più la graphic novel rispetto ad altre forme più tradizionali?

T: Io in realtà disegno da sempre, sin da quando ero in Tunisia. Poi sono venuta qua. Ho provato tutti i tipi di arte, ho provato a scrivere semplicemente dei racconti, degli articoli di giornale, oltre che il cinema delle nazioni. Ma è nel fumetto in particolare che ho trovato lo strumento più efficace per arrivare a un pubblico più vasto, ad esempio, rispetto a un semplice articolo che probabilmente resta meno nel tempo rispetto al fumetto. Il pubblico è più propenso a leggere un fumetto che un articolo di giornale. E poi l’arte da sempre avvicina le persone.

I: E a che punto è secondo te il dibattito in Italia, visto che è l’esperienza che credo tu sperimenti maggiormente, riguardo alla “cittadinanza” e “intercultura” mediterranea?

T: Secondo me siamo indietro. Ma c’è anche un aspetto nel quale siamo avanti. Purtroppo, più nel mondo del giornalismo aumenta l’uso della notizia piuttosto che quello dell’informazione, più aumentano anche l’ignoranza e il pregiudizio, soprattutto si moltiplicano false. Siamo però avanti se si tiene conto che nelle persone esiste la volontà d’informarsi. Il problema è che molti non sanno come fare. Dobbiamo anche conoscere gli strumenti per accedere all’informazione, a un’informazione giusta piuttosto che a una sbagliata, cosa molto facile soprattutto nei social network dove tutti si proclamano giornalisti. La libertà d’opinione è una cosa giusta, ma ho qualche dubbio che questa passi per la giusta informazione. Si dà più valore alla notizia che all’informazione. Siamo quindi un passo indietro da un lato, ma un passo avanti nella volontà.

I: Una domanda che abbiamo fatto a tutti i partecipanti del Sabir Maydan: tu ti consideri un’attivista? E nel caso, cosa significa per te “essere un’attivista”?

T: Io mi considero un’attivista, sono nata in una famiglia d’attivisti, è quindi una cosa che ho ereditato dai miei genitori e dai miei fratelli più grandi. Da quando avevo 10 anni, quando mi portavano con loro nelle associazioni giovanili, di volontariato o umanitarie. Combattere sempre, perciò, per il tuo pensiero e per i tuoi diritti, prima di tutto per i tuoi diritti e poi per condividere il tuo pensiero con gli altri; per difendere dunque la tua identità e il tuo pensiero. In tutti questi anni mi sono sempre considerata un’attivista e ho trasformato il mio attivismo in quello che è il fumetto intercultura: ho quindi iniziato a trasmettere, difendere i miei diritti di donna musulmana o di donna araba attraverso il fumetto intercultura.
Comunico quindi il mio pensiero, ed è per questo che ho notato un grande successo di questo mezzo di comunicazione. Non sono più la ragazza che nell’associazione organizzava eventi, perché grazie al fumetto la gente leggeva i miei pensieri nonostante fossi timidissima. In questo modo, pian piano, le prime associazioni hanno cominciato a chiamarmi, seguite da organizzazioni, comuni e assessorati, per parlare di ciò che scrivevo. Per me quindi si tratta di una forma di attivismo, non si tratta solamente di disegnare e scrivere: è più che altro uno strumento. Dunque sì, mi considero a tutti gli effetti un’attivista. In famiglia lo facciamo tutti seppur in modi diversi, ognuno ha il suo metodo, io sono l’attivista-artista della famiglia.