Intervista a Malek Adly
D: Come è entrato in contatto con il SabirFest e qual è stato il suo contributo a questa manifestazione?
M: Ho conosciuto il SabirFest tramite COSPE. Mi trovavo a Firenze per un’occasione e hanno deciso di invitarmi qui. E sembra che il SabirFest, che ospita a sua volta il Sabir Maydan, sia uno dei raduni più creativi di questa zona, poiché pare essere il primo network vero tra i cittadini mediterranei. Questo è un bene per noi, in quanto è una sorta di movimento popolare. Non si tratta di un movimento a livello ufficiale o di organizzazioni di società civile, né solamente di movimenti islamici o religiosi, ma si di semplici cittadini; si ha così l’opportunità di incontrare persone che lavorano ad articoli, giornalisti, avvocati, difensori, attivisti politici. L’importanza di quest’ evento è che costituisce una grande opportunità per la gente di farsi conoscere, parlare e generare qualcosa assieme, perché credo che all’origine di tutto vi sia il dialogo.
D: Come descriverebbe la relazione tra la situazione economica e la situazione dei diritti umani, sia nella sua nazione che a livello internazionale?
M: La situazione economica si riflette sui diritti umani. E noi abbiamo anche dei diritti economici. I diritti economici fanno parte dei diritti umani. Ad esempio se in Egitto soffriamo la povertà è perché la gente non si vede riconosciuti i propri diritti sociali ed economici, non ha diritto d’accesso all’istruzione, alla salute, all’abitazione… Tutti questi sono effetti direttamente causati dalla situazione economica; ma tutto ciò non riguarda solamente l’economia, poiché la soluzione non sta nei soldi e nella situazione finanziaria. È possibile trovare altre nazioni come l’Algeria che non si trovano in una situazione economica così negativa ma dove non esiste democrazia e vengono violati i diritti umani. Si tratta quindi di cultura, di discutere, di elaborare strategie e soluzioni collettive all’interno di queste comunità.
D: Ti ritieni un attivista?
M: In realtà, “attivista” in Egitto è una specie di insulto: in Egitto questa parola viene utilizzata per screditare le persone che difendono i diritti umani, i politici e quanti sono favorevoli alla democrazia. La usano come un insulto e cercano di veicolare l’idea che se sei un attivista non hai nulla da fare, perdi semplicemente tempo, e non hai né un lavoro e non hai nessun tipo di importanza nella tua società. Inoltre mi piace pensare a me stesso come un avvocato, come un difensore dei diritti umani. Ovviamente io non percepisco “attivista” come un insulto: attualmente i miei fini non sono politici, quanto piuttosto orientati sulla situazione dei diritti umani, e sul come utilizzare la politica al servizio dei diritti umani, mostrando alle persone alcuni dei loro diritti.
D: Cosa ne pensa dell’uso attuale, forse abuso dei social network per raccogliere informazioni? Per lei deve essere inteso come un diritto o può creare confusione?
M: Accedere alle informazioni è una delle cose più importanti avvenute in questi anni. Se stiamo parlando del loro uso attuale, non ci riferiamo ad una generazione ordinaria. Questa generazione proveniente dalla Tunisia, dal Iraq, dall’Algeria, dal Sudan, dall’India, dal Bahrain, dall’Egitto, dall’Arabia Saudita ha utilizzato i social e internet per fare” attivismo”, per partecipare e in alcuni casi, come in Egitto del 2011, per fare proprio la Rivoluzione! Garantire il pieno accesso alle informazioni alle persone significa dar loro più forza, permettere che possano accrescere il loro potere decisionale. Come sai, l’informazione è potere. Ma il problema è: come usare queste informazioni? Qual è il genere di informazione che loro vogliono? È un problema che riguarda il sistema educativo, la mentalità, e il modo in cui sono stati educati. Se sono cresciuti in un’atmosfera di violenza, ricercheranno modi per metterla in pratica; se invece sono cresciuti in un’altra comunità, una comunità pacifica, penseranno a metodi non violenti per cambiare le cose, che non saranno basati solamente su internet ma su altre fonti di informazione. Allo stesso tempo siamo però contro ogni tipo di sorveglianza, di oscuramento di internet ad opera di quanti lo usano solamente per accedere alle informazioni, qualunque tipo di informazioni siano. Questa generazione ha rotto il muro della paura, perché in loro vive la speranza. La rivoluzione è nelle strade, loro partecipano, manifestano contro regimi, invece io, quando avevo ancora 16 o 17 anni, non avevo il diritto di uscire dalla mia stanza per unirmi a simili eventi. Loro invece si trovavano a fianco noi a Tahrir Square, erano ad Habib Bourguiba Street in Tunisia, hanno partecipato alle manifestazioni in Yemen, in Bahrain e alcuni di loro sono venuti in supporto dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia. Hanno quindi un altro punto di vista sul cambiamento, sul futuro delle loro comunità, sul futuro della cooperazione tra paesi diversi.