COP 28 di Dubai: Parigi è lontana. La società civile deve continuare a chiedere giustizia climatica. La posizione di COSPE.
Incoscienza, incapacità e forte condizionamento delle lobby del fossile dietro il risultato della COP28: con una transizione ecologica ed energetica sicuramente più lunga del necessario, che si può riassumere nell’ambivalenza dei termini “transitioning away”, gli scarsi progressi delle politiche nazionali di mitigazione e i finanziamenti ridicoli rispetto alle esigenze per gestire danni e perdite da cambiamenti climatici, gli obiettivi dell’Accordo di Parigi rimangono lontani da raggiungere.
E’ certamente importante che nel testo finale del Global Stocktake (il bilancio degli impegni dei Paesi per la riduzione dei gas climalteranti previsto dall’Accordo di Parigi per quest’anno]) si ribadisca sia che il cambiamento climatico è una preoccupazione comune dell’umanità sia la correttezza dei riferimenti e delle analisi della scienza, vista soprattutto l’ondata di negazionismo climatico alimentata surrettiziamente dalle grandi lobby del fossile e viste le conclusioni drammatiche del Sesto Rapporto di Valutazione del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), sebbene le raccomandazioni della COP 28 rimangano semplicemente un invito volontario alle Parti, nella migliore tradizione dell’Accordo di Parigi.
D’altra parte, visti i dati comunicati dalle Parti nei Contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contributions, NDC oppure Intended Nationally Determined Contributions, INDC,cioè le strategie nazionali di lotta al cambiamento climatico), gli sforzi di rimanere ampiamente sotto l’aumento di 2°C rispetto alla temperatura dell’epoca preindustriale, cercando di non superare 1.5°C, rimangono ampiamente insufficienti.
Obiettivi di temperatura che erano stati ratificati nell’Accordo di Parigi, ma che appaiono sempre più lontani considerato che sarebbero necessarie riduzioni “profonde, rapide e sostenute” delle emissioni di gas a effetto serra, garantendo allo stesso tempo l’integrità degli ecosistemi naturali e tenendo presente la stretta interconnessione tra le cause dei cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità, aspetti che mettono in crisi a livello globale tanto la sicurezza alimentare quanto quella dei sistemi idrici superficiali e sotterranei.
Cosa comunicheranno, in tale quadro, i Paesi nei prossimi NDC del 2025, che dovranno avere un orizzonte temporale decennale, quindi includere azioni e politiche fino al 2035 secondo la formula 5+5 approvata a Glasgow due anni fa. è un mistero.
Si tratta più che altro di una road map tortuosa ed improbabile visto che alla fine, dopo una altalenante e lunga mediazione, si è preferito al posto di un netto “phase out” dai combustibili fossili un approccio più graduale, che prevede di “abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza”.
E siccome le parole sono importanti, insistere con il concetto di “emissioni nette zero” significa non abbattere totalmente le emissioni, ma trovare un modo capace di bilanciarle. Non è un caso che si proponga, tra gli altri percorsi nazionali, tecnologie dubbie come il CCS (Carbon Capture and Storage, cioè le tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura e l’utilizzo del carbonio e lo stoccaggio) a fianco dell’implementazione di tecnologie a zero e basse emissioni, che tiene assieme, paradossalmente, le energie rinnovabili, il nucleare e la produzione di idrogeno a basse emissioni, il cosiddetto “idrogeno green”.
Infine dopo l’annuncio mediatico già nella prima plenaria del primo giorno dell’avvio del Fondo Perdite e danni, ad oggi gli impegni finanziari da parte di vari Paesi, sono pochi ed esigui rispetto ai bisogni reali.
Vista la non cogenza delle raccomandazioni di COP, lo scarso investimento dei Governi in reali politiche di trasformazione dei modelli economici ed energetici, la società civile deve continuare a reclamare il fatto che gli obiettivi di Parigi si devono inquadrare nei principi di equità e delle responsabilità comuni ma differenziate e nel rispetto della “giustizia climatica”, soprattutto appellandosi ed usando lo strumento dei contenziosi climatici.
Un ruolo importante può essere giocato dai territori, dalla società civile, dalle città e dalle Regioni: un’articolazione diffusa che ha attraversato e tentato di condizionare i negoziati già nel passato, basterebbe pensare alla coalizione di città statunitensi del movimento “We are still in” durante la presidenza Trump, o il ruolo giocato dai movimenti sociali climatici nel loro organizzare e gestire il conflitto e la sensibilizzazione/informazione in tutti i Paesi del mondo o ancora movimenti civici come le Transition Town o la Covenant of Mayor e il ruolo che i Sindaci possono giocare nell’accelerare concretamente una transizione ecologica, energetica e sociale ormai necessaria.
Una transizione che dovrà essere complessa ed equa, perché le risorse che saranno necessarie sono molte e dovranno essere principalmente pagate da chi si è reso responsabile in prima istanza della crisi climatica che stiamo vivendo e che si è alimentata di una ricerca illimitata di profitto.
Una trasformazione che non potrà e non dovrà confermare le regole attuali che governano l’economia, ma modificarle profondamente dando priorità ai mercati locali, alle produzioni sostenibili, ma anche al rispetto per i diritti del lavoro, un cambiamento che non può non considerare lo squilibrio dei rapporti di forza e che per cambiarli dovrà chiamare attorno alla parola d’ordine della giustizia climatica e sociale tutte le parti interessate, incluso i popoli nativi e le categorie più vulnerabili.
15 dicembre 2023