La legge sulla cittadinanza italiana compie 30 anni oggi ma ne dimostra almeno tre volte di più
La legge 5 febbraio 1992 n. 91 – nuove norme sulla cittadinanza italiana – compie oggi 30 anni, ma non è la data di nascita a renderla vetusta, quanto piuttosto la concezione politica che la sorregge.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti.
La legge nasce “vecchia”, perché incentra, e acriticamente ripropone la trasmissibilità della cittadinanza per sangue (ius sanguinis) quale strumento adottato dal legislatore di fine ottocento ed inizio novecento, per assolvere all’esigenza di non recidere il legame dello Stato con la moltitudine dei suoi cittadini costretti ad emigrare.
L’assoluta centralità, tra i modi di acquisto della cittadinanza dello ius sanguinis, e la marginalità dell’acquisto per naturalizzazione è il tema portante della legge sulla cittadinanza del 1912 che, a sua volta, ripropone quanto già previsto dall’art. 4 del codice civile del 1865.
Affermare che la cittadinanza si trasmette per sangue, di fatto, comporta che chi possa documentare di essere discendente di cittadino italiano (purché non vi siano state nel tempo espresse rinunce) può rivendicare lo status, anche se il suo ascendente ha lasciato l’Italia, senza farvi ritorno, sin dai tempi dell’Unità, ed anche prima con dei distinguo, ed i suoi discendenti, compreso quello che chiede di essere riconosciuto cittadino, ha mantenuto e manterrà la residenza all’estero.
Eppure, come evidente, già nel 1992 il contesto socio economico e culturale dell’Italia non può certo essere paragonato a quello che ispira il legislatore del 1865 o del 1912, e tuttavia si perpetua la dicotomia tra le forme di acquisto della cittadinanza facendo assurgere alla trasmissibilità per sangue la consistenza di un diritto assoluto, ed alla naturalizzazione la natura di mero interesse legittimo.
Il tutto, si sottolinea, a prescindere da quella che potrebbe essere definita “pratica della cittadinanza” che si sostanzia nell’essere presenti sul territorio concorrendo all’organizzazione politica sociale ed economica della comunità (secondo il chiaro concetto che della cittadinanza si ricava dall’art. 3 della Costituzione Italiana); pratica non richiesta se il diritto è “trasmesso” attraverso il sangue anche di più generazioni, e correttamente ed ovviamente, presupposta nelle forme di acquisto per naturalizzazione, ma ove a differenza della prima ipotesi, il legislatore non solo pone l’accento sulla meritevolezza del comportamento del richiedente al quale chiede oltre alla residenza continuativa e decennale sul territorio, la documentata conoscenza della lingua italiana, la mancanza di rilievi di natura penale, l’autosufficienza economica documentata degli ultimi tre anni, ma sembra avere consentito una ulteriore valutazione di ampia discrezionalità alla amministrazione vieppiù sottratta, nel merito, al sindacato del giudice.
Cosi, e tutt’ora l’interpretazione in assoluto maggioritaria, qualifica la pretesa di cittadinanza per naturalizzazione come un mero interesse legittimo, assumendo che, pur in presenza dei requisiti voluti dal legislatore, “può essere concessa” dall’amministrazione – art. 9 L.91/92 – e ove sorga contenzioso sarà la giustizia amministrativa a conoscere della questione, limitando però l’ambito dell’accertamento alla correttezza formale del procedimento che ha portato al rifiuto, senza estendere il sindacato alle motivazioni del rifiuto stesso.
Tra i due estremi, la legge disciplina, la modalità di acquisto dello status per matrimonio – art. 5 L citata – con cittadino italiano, e, qui, gli anni di permanenza scendono a due o tre (se dal matrimonio non sono nati figli) e, non sono ostativi rilievi penale di minor allarme sociale. Non si tratta di un riconoscimento come per la trasmissibilità dello status per sangue, ma pur sempre, nella interpretazione della legge più accredita, di un diritto soggettivo. Con la conseguenza che sarà il giudice ordinario (il giudice dei diritti) a conoscere della questione laddove sorga controversia con l’amministrazione potendo e dovendo sindacare la decisione anche nel merito.
Tutti i procedimenti, indipendente dai modi di acquisto della cittadinanza, sono però accomunati da un irragionevole termine concesso all’amministrazione per definirlo – art. 9 ter – due anni prorogabili a tre, che si aggiungono ai 10 della naturalizzazione, ed ai due o tre del matrimonio.
Neanche laddove si tratta di riconoscere la cittadinanza ai minori il legislatore, nonostante le tante sollecitazione provenienti dalla società civile, è stato sino ad ora capace di assumersi le responsabilità che gli competono per adempiere alle politiche di inclusione. Cosi ancora oggi le ragazze ed i ragazzi che vivono in Italia, qui studiano e crescono con i loro coetanei cittadini italiani, possono acquisire lo status solo al compimento dei 18 se nati in Italia ed ivi residenti senza discontinuità (art. 4 ultima comma).
Del resto gli ultimi interventi legislativi risentono di un clima ancor più involuto nell’interpretazione del concetto di cittadinanza, creando il nuovo istituto di revoca della cittadinanza a fronte di condanne definitive per delitti previsti dall’art. 407 c2 la n. 4 cpp e artt. 270 ter e 270 quinques cp solo per i cittadini che l’hanno acquisita non per sangue (art. 10 bis).
È tempo che il legislatore italiano prenda atto che la cittadinanza è da annoverarsi tra i diritti umani come vuole l’art. 15 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che il suo acquisto deve poter conseguire nient’altro che dalla volontà univoca della persona attestato dall’aderenza e la conformazione dell’agire della persona alle condizioni che la legge, e solo la legge, determina in conformità della società che la carta costituzionale disegna e alla definizione di società che questa rimanda attraverso i suoi principi fondamentali.
Per quanto detto è urgente una riforma della materia organica, che tenga conto delle esigenze della attuale società, tenendo conto dei limiti, che alla sovranità nazionale derivano dall’acquisizione della cittadinanza europea.
È infatti noto che con il trattato di Maastricht la cittadinanza europea è riconosciuta a tutti i cittadini degli Stati membri.
Per gli articoli 9 par 1 del trattato sull’unione europea e 20 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea “è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro”. Trattasi di cittadinanza derivata che si acquisisce attraverso la cittadinanza dei singoli Stati membri, e, per tale ragione, gli Stati membri pur nell’autonomia riconosciuta loro dal diritto consuetudinario internazionale, sono tuttavia obbligati, anche in tale ambito, al rispettato dei diritti dell’Unione – sentenza Rottman e Tjebbes della Corte di Giustizia Europea. E quindi l’art. 20 del TFUE sulla parità di trattamento per nazionalità, e i diritti sanciti dalla carta dei diritti fondamentali.
La Commissione Europea già nel 2003 nella “Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni” ha chiesto agli Stati membri di attenersi al seguente principio: “la naturalizzazione deve essere rapida certa e non discrezionale. Gli Stati hanno facoltà di richiedere un periodo minimo di soggiorno, la conoscenza della lingua e di tenere in debito conto la fedina penale” Ma aldilà di questo che gli Stati membri hanno l’obbligo di dettare “criteri di naturalizzazione …….chiari precisi obiettivi e di limitare il potere discrezionale amministrativo assoggettandolo al controllo giudiziario”.
E tuttavia, in Italia, il dibattito sembra non “decollare”.
Avv. Daniela Consoli
5 febbraio 2022