Con l’Amazzonia nel Cuore e due peluche nelle tasche

Biblioteca delle Oblate, via dell’Oriuolo 24, Firenze

Lunedì 20 dicembre 2021, ore 18.00

Presentazione del libro di Giammarco Sicuro “L’anno dell’alpaca”, in dialogo con la giornalista Cristina Di Domenico caporedattrice della TGR RAI Toscana. In collegamento dal Brasile, Gabriel ” il cacciatori di fuochi”.

“L’anno dell’alpaca” (Gemma Edizioni) è il racconto del lungo viaggio di chi si ritrova, suo malgrado, dall’altra parte del pianeta quando l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia l’inizio di una pandemia. Mentre il mondo si chiude in casa, la cronaca personale di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2, fa conoscere al lettore le realtà e le vicende umane di tre continenti: dal Perù dei primi casi accertati, alla Spagna in lockdown. Dalla Corea del Sud divenuta un modello di gestione del virus, al dramma di Messico e Brasile.

L’anno dell’alpaca è, anche, e soprattutto, un diario irripetibile, affidato a un personale filtro dei ricordi, nato dalle necessità e mosso da una passione: raccontare il mondo. È un diario scritto e vissuto in compagnia di due peluche: un alpaca e un lama, che finiranno per trasformarsi in un prezioso, folle e surreale appiglio nei momenti più drammatici e dolorosi, ma anche in quelli, necessari, più spensierati e sorprendenti.

L’evento è organizzato da COSPE nell’ambito della campagna AMAzzonia, per il sostegno dei popoli indigeni della foresta amazzonica.

 

Di seguito la nostra intervista a Giammarco Sicuro

Come nasce il libro?

Come accade molte volte nella vita, certe esperienze nascono per caso. L’esperienza che ho vissuto e che fa da prologo a questo libro nasce da una vacanza nel febbraio 2020, in un periodo nel quale non conoscevamo ancora bene la pandemia e la si vedeva solo in televisione dalla Cina. Mentre in Italia si cercava di capire cosa sarebbe successo, io avevo già organizzato questo viaggio in Perù e in Bolivia, due paesi che amo e dei quali mi sono occupato per lavoro. Quindi tra l’incertezza “vado / non vado” ho deciso di partire e il caso ha voluto che fossi in Perù quando l’Italia si è chiusa nel primo lockdown generale.

Lì ho assistito alle prime conseguenze per il nostro Paese, in un momento in cui eravamo considerati gi untori del mondo con un boom di casi tra Bergamo e dintorni. Nella prima parte di questo libro mi confronto infatti con le persone che mi guardano con sospetto ed è una sensazione che purtroppo vivono le persone discriminate. In quel frangente, ho vissuto sulla mia pelle cosa vuol dire essere discriminati. Da lì ho iniziato a raccontare quel che accadeva intorno. Dal Perù in modo rocambolesco mi ritrovo poi in Spagna e, anche lì, ho raccontato due mesi del periodo pandemico in quella che può essere considerata la fase più acuta. Poi in Asia, in Corea e poi nuovamente in Sudamerica, prima in Messico e dopo in Brasile. In Amazzonia ho raccontato la pandemia soffermandomi soprattutto in alcune aree per raccontare di quanto la pandemia stava gravemente colpendo le popolazioni. Nel libro racconto infatti delle storie di alcune tribù. È il caso della tribù dei Mura.

 

L’Amazzonia, la pandemia e la crisi climatica. Quale il nesso tra le questioni e quale il fil rouge che lega il nostro destino a quello amazzonico?

Io mi sono ritrovato a raccontare l’Amazzonia sia nel lato nord, zona Manaus, sia nel sud salendo dallo stato di Rondonia quando la pandemia colpiva forte. Mi ha impressionato un dato, quello relativo al 2020 che parla di una deforestazione record proprio nell’anno in cui la pandemia colpiva il paese e le sue popolazioni. Questo è secondo me il fatto che fa capire meglio quanto deforestazione e pandemia stiano viaggiando a braccetto. Molti indigeni, molti esperti e volontari delle onlus che lì lavorano, mi hanno raccontato che in tanti hanno approfittato delle distrazioni legate alle morti e ai contagi da Covid in quella parte del mondo. Perché? Per portare avanti la deforestazione. Tra caos e distrazioni delle forze dell’ordine e degli operatori sanitari impegnati a salvare vite, c’era anche chi speculava per accelerare i processi di deforestazione. È una verità che il territorio denuncia da tempo.

Credo sia oggi necessario sottolineare come questi due aspetti, la pandemia e la deforestazione, si siano alimentati reciprocamente. Basta leggere le accuse di genocidi promosse davanti alla Corte Suprema brasiliana contro Bolsonaro a dimostrazione del tentativo di diffondere la pandemia e il contagio tra le popolazioni indigene, soggetti più fragili a malattie respiratorie. Questo mi è stato confermato da indigeni stessi, in particolare dai Mura con cui ho avuto modo di confrontarmi. Ho infatti trascorso molto tempo nel loro territorio nativo e, in più occasioni, mi hanno detto che le forze ordine o altri operatori si recavano lì privi di mascherina e spesso causando maggiori contagi. Questo è terribile, soprattutto se si pensa che molte di queste comunità sono in genere tanto chiuse e difficilmente sarebbe stato possibile un contagio. Oggi i Mura e altre popolazioni indigene cercano di proteggersi da sole, senza aiuto di una garanzia governativa.

 

A diretto contato con alcune comunità indigene hai avuto sicuramente occasione di confronto con vari aspetti di resistenza e lotta. C’è una storia che ti sei portato dietro come racconto emblematico e che vuoi condividere con noi?

Sì, in realtà due. Si tratta di due persone ben presenti nel libro.

Una persona è Gabriel, un signore brasiliano che da 30-40 anni rincorre i fuochi. Lui si definisce “cacciatore di fuochi”. È una di quelle persone preziosissime in questi territori: percorre centinai di km ogni giorno, inseguendo i piccoli incendi e segnalandoli alle autorità. È un lavoro necessario. L’Amazzonia sta morendo e questo accade pezzettino per pezzettino. Gabriel è un personaggio  straordinario che lotta quotidianamente. Lui mi ha messo in contatto con i Mura, mi ha portato a conoscerli e a parlarci.

Altra storia è quella di Priscilla, una bambina di pochi anni che noi abbiamo accompagnato in macchina da Manaus fino alla tribù dove risiede. Lei rappresenta il futuro delle popolazioni indigene. Non svelo niente a proposito del libro ma anticipo solo che lei avrà un rapporto molto stretto con l’alpaca di peluche, protagonista con me di questa avventura e da cui deriva il titolo del libro. Priscilla mi accoglie dentro una tribù dove è stata creata una sorta di barriera artigianale  sanitaria presieduta da due guardie con lance in mano che assicurano i controlli sui visitatori, monitorando green pass e verificando uso della mascherina e presenza di un tampone negativo. Una sorta di barriera autogestita e artigianale come risposta ad un governo che non protegge queste popolazioni.

 

Rispetto alla COP26 ritieni che le misure annunciate dai governi possano essere sufficienti ed efficaci?

Non sono sufficienti e lo sappiamo. Niente di quel che servirebbe per salvare questo pianeta è stato detto. Ho avuto modo di riconfrontarmi con persone che lavorano e hanno a cuore il tema amazzonico e la delusione oggi è tanta. Si percepisce una disperazione. Secondo i dati degli esperti si conferma infatti che se non faremo presto qualcosa di radicale, non avremo via d’uscita. A Manaus ho intervistato il referente di Greenpeace su questi dati e beh, qui c’è poco da scherzare. Siamo vicini a un punto di non ritorno. Si tratta di elementi scientifici che danno assoluta certezza delle necessità di lotte radicali per non rischiare di perdere i livelli di biodiversità e le produzioni stesse che sono necessari per mantenere in vita la foresta amazzonica.  Di questo passo, finiranno le condizioni necessarie alla sopravvivenza della foresta amazzonica. Servono interventi radicali e purtroppo non sono state prese decisioni in questo senso. Ad oggi, alla prova attuale, l’Amazzonia morirà davanti ai nostri occhi.

Come COSPE sappiamo bene quanto difficile sia per i giornalisti “illuminare” aree del mondo come quella latino americana e amazzonica in particolare, che trovano poco spazio nei media italiani. Possiamo considerare questo libro un altro tuo contributo ad Illuminare Le periferie del mondo? 

Se c’è una cosa che la pandemia ci ha permesso di capire è quanto siamo interconnessi. Il mondo è oggi un giardino di casa e quello che succede da una parte dell’emisfero poi arriva da noi, nel giro di qualche giorno. Quello che è successo in Cina è arrivato in breve tempo in Italia e poi in Sud America in maniera devastante.

Tra le cose che possiamo capire da questo libro, una delle prime è la morale dell’interconnessione e delle ripercussioni che toccano tutti. È importante conoscere cosa succede nelle periferie del mondo perché fa parte delle nostre realtà ed è questo quello che vuole fare il libro.

Abbraccio il lavoro di COSPE che da anni è a fianco delle popolazioni più vulnerabili e per i Paesi del sud del mondo. Ha tanti progetti in questa area ma anche in alcuni paesi africani e nelle mie pagine, con una vena spesso ironica, provo a raccontare le storie di spazi spesso dimenticati e il ruolo della pandemia che ha ucciso l’economia di paesi già fragili.

 

13/12/2021