Palestina: cronaca di una detenzione annunciata. La lettera del nostro Jamil dopo il carcere.

Condividiamo una lettera inviataci da Jamil Daraghmeh, giovane direttore dei programmi della Palestinian Youth Union, associazione palestinese con cui lavoriamo da oltre 10 anni.  A gennaio, Jamil è stato arrestato dalle Forze di Sicurezza dello stato di Israele, come sempre di notte, senza accuse, e senza prove nel corso della detenzione. Questo è ormai accaduto a diverse migliaia di palestinesi dal 1967, con l’Occupazione militare e civile della Palestina, da parte dello Stato di Israele. Ogni famiglia ha avuto, nel corso dei decenni, almeno un prigioniero politico.

Abbiamo offerto a PYU la nostra collaborazione per qualsiasi necessità, e poi, dopo 38 giorni, Jamil è uscito da carcere. Si è preso un po’ di tempo per elaborare, e quindi ha scritto questa lettera profonda e commovente, per tutti e tutte coloro che gli hanno fatto sentire la loro vicinanza. Ci ha chiesto di far circolare questa lettera, perché tutti e tutte possano conoscere come tocca vivere ogni giorno a un palestinese, soprattutto se impegnato nella resistenza all’occupazione, nella richiesta del rispetto dei diritti umani, nella costruzione di una società democratica e plurale.

 

Dove la luce di Dio non arriva

Nient’altro che muri di cemento, il rumore dei ventilatori, ed il tempo. Le luci sono appositamente progettate per disturbare il sonno e svegliarti, allora desideri vedere la luce di Dio, desideri la luce del giorno. Qui la battaglia è la battaglia del tempo e della salvaguardia della mente, non c’è niente per te, che illumini la tua anima e guidi la tua strada.

I ricordi sono dolore, tutto ciò che è umano è dolore: devi separarti dalla tua umanità per riuscire ad andare avanti, e non separarti dalla tua umanità per non perderti.

38 giorni nel Centro di Investigazione Al-Maskobiyya, mi vergogno a scriverne perché tutto questo non è niente in confronto alle esperienze di chi è venuto prima di me e di chi seguirà.

38 giorni sono stati come 38 mesi, in isolamento e con interrogatori continui, nelle peggiori condizioni psicologiche e di sopportazione, senza nessuna colpa addebitata, eccetto il sospetto.

Alle quattro del mattino, mia moglie mi ha svegliato sentendo un rumore di colpi e la porta di casa nostra è saltata in aria; senza neanche avere il tempo di pensare a cosa stesse succedendo mi sono trovato di fronte a una ventina di soldati israeliani dell’Unità Speciale all’ingresso di casa, tutto quello che potevo dire loro è stato: “Ci sono bambini che dormono, per favore non spaventateli”.

I soldati sono entrati e mi hanno tenuto sotto sorveglianza all’ingresso di casa. Dopo aver perquisito la casa, mi hanno fatto entrare e mostrare mi hanno chiesto la carta d’identità. Ho trovato i miei tre figli (di 4, 7 e 10 anni) attaccati alla madre, che è stata costretta a sedersi in soggiorno. Ho visto solo paura in loro, il bambino più grande guardava a terra e non osava alzare gli occhi, il secondo piangeva e la piccola guardava, mentre si metteva il pollice in bocca senza rendersi conto di cosa stesse succedendo. I bambini non dicevano una parola, non hanno nemmeno chiesto cosa stesse accadendo. Avevano già sentito parlare da altri bambini dell’Esercito Israeliano e degli arresti notturni, non hanno potuto salutare il loro padre, non hanno visto altro che pistole ed i volti mascherati dei soldati.

I soldati mi hanno legato le mani con dei lacci di plastica davanti alla mia famiglia e mi hanno portato bendato ai loro veicoli militari, dove sono stato gettato per terra, tra i sedili del veicolo pieno di fango proveniente dagli scarponi dei soldati. Dopo un viaggio di 8 ore, sono arrivato al Centro di Investigazione Al-Maskobiyya a Gerusalemme. Sono riuscito a capire che posto fosse perché ho sollevato leggermente la benda grattandomi la faccia con le ginocchia.

Al Centro Investigativo mi è stato chiesto se stavo pensando al suicidio o se avessi tentato di suicidarmi in passato, e se avevo problemi fisici; sono rimasto inizialmente sorpreso dalla domanda ma successivamente ho capito che è una delle domande più importanti, perché chi entra in quel posto, o si suicida o pensa di farlo.

Dopo essere stato costretto a sostituire i miei vestiti con degli abiti marroni da prigione, destinati ai prigionieri di massima sicurezza, sono stato portato in isolamento in una cella molto piccola, fatta di cemento grezzo, con un materasso sul pavimento, alcune lenzuola marroni ed un’apertura nel pavimento che sarebbe il bagno, e mi è stato detto che ero un detenuto di sicurezza.

Era mezzogiorno di giovedì 21 gennaio 2021, mi sono seduto nella cella di isolamento cercando di capire cosa fosse successo e ci sono rimasto fino a domenica sera, senza vedere né parlare con nessuno, solo le guardie che introducevano nella cella quello che viene chiamato cibo (poco, freddo e scadente), 3 volte al giorno: questo mi bastava per capire se era effettivamente giorno o notte.

Nel corso dei 4 giorni ho cercato di capire l’ordine delle celle di isolamento, di comprendere l’orario e di organizzarmi di conseguenza; ho capito, ad esempio, che dormire di giorno mi faceva male perché perdevo i riferimenti temporali rimanendo sveglio la notte, questo mi è anche servito a capire che avevo diritto ad una doccia al giorno e ad imparare alcune parole ebraiche, come ad esempio chiedere di accendere una sigaretta. Le guardie danno al prigioniero due sigarette al giorno e, in quanto fumatore, dovevo organizzarmi in modo da fumare metà sigaretta per volta, e non una sigaretta intera.

Dalla sera di domenica  24 gennaio e per un periodo di 25 giorni, sono stato interrogato per sospetti di cui non sapevo nulla. La guardia raggiunge la cella di isolamento ed il prigioniero viene portato, bendato ed ammanettato, nella stanza degli interrogatori, viene fatto sedere su una sedia rigida e viene ammanettato alla sedia. Gli interrogatori sono durati dalle 6, e nei casi più lunghi, alle 18 ore consecutive.

Nella cella non c’è posto dove appoggiare la schiena, sui muri grezzi, non c’è niente altro che te stesso, il cemento e il tempo. Molti ex carcerati talvolta incidevano i loro nomi con le unghie sulla porta d’acciaio della cella. Lì, nell’oscurità di quel luogo, nonostante la sua continua illuminazione, giorno e notte, la battaglia è con te stesso, prima ancora della tua battaglia con l’oppressione dell’Occupazione, al fine di preservare la tua mente. Lì raggiungi una condizione nella quale valuti addirittura di dire di aver fatto qualcosa anche se non hai fatto niente, solo per porre fine a questo tormento.

Dopo 38 giorni sono stato rilasciato, su cauzione, per presenziare alle sedute in tribunale, ho finalmente posto fine al tormento delle celle d’isolamento, ma l’effetto rimane anche dopo essere uscito; quando ho incontrato i miei figli non ho sentito alcun affetto per loro, ho avuto la sensazione di non conoscerli, nonostante il breve periodo di assenza, mi sono reso conto in seguito che si trattava di una reazione psichica dovuta ai tentativi di non pensarci durante l’ultimo periodo, per ridurre il turbamento.

I giorni sono passati, adesso sto bene, seguo il processo e penso molto alla posizione che avete assunto al mio fianco, mi sono sentito molto felice e di buon umore quando l’avvocato mi ha detto che chiedevate di me.

Vi invio i miei ringraziamenti e tutto il mio affetto e perdonatemi per la lunghezza del messaggio, che mi piace condividere con voi.

Considerate questa lettera come un saluto, un apprezzamento e un ringraziamento personale per ognuno di voi, anche per i colleghi di cui non ho le mail.

Con affetto,

Jamil Daraghmeh

Direttore dei Programmi
Palestinian Youth Union

 

Firenze, 7 aprile 2021