Keiko e Jessica, le inTRANSigenti: i diritti lgbti in Bolivia ai tempi del Covid19

In Bolivia esistono leggi che contrastano le discriminazioni, anche quelle verso l’orientamento sessuale, ma “le leggi non cambiano la mentalità delle persone”. Contro questa mentalità lottano, in modi diversi, Keiko e Jessica. Keiko Moxitania Cortez Vasquez ha 36 anni e, con questo nome almodovariano conquistato nel 2016 (grazie alla legge 807 che in Bolivia riconosce legalmente l’identità di genere ndr), ha già attraversato tutte le intemperie che la sua condizione di donna trans le ha imposto in un paese molto conservatore come questo. In più Keiko proviene dalla “provinciale” Trinidad, capitale del Dipartimento amazzonico del Beni e fino a che non è arrivata a La Paz, dopo il diploma delle superiori, non ha potuto essere apertamente “la donna che sono sempre stata e che ho sempre voluto essere”. Sì perché le idee lei ce l’ha sempre avute chiare, ma ha dovuto aspettare tempo e luogo per fare coming out e per diventare l’attivista che è oggi. Un’altra storia è quella di Jessica Velarte, 30 anni, è paceña (come di definiscono gli abitanti di La Paz), giornalista, artista, modella, attrice, vlogger, e a lungo conduttrice del programma radio le “InTRANSigenti” su Radio Desiderio. La sua stessa vita (o le sue tante vite), la sua forza per porsi ed imporsi nella società al di là di ogni stereotipo e pregiudizio, rappresentano una bandiera per molte altre persone lgbti che in Bolivia soffrono delle discriminazioni riservate a chi vuole affermare il proprio orientamento sessuale e identità di genere.  Le abbiamo sentite proprio per capire come le persone lgbti stiano vivendo questo momento storico così devastante come l’emergenza Covid19. Purtroppo ci confermano che le conseguenze dell’emergenza, delle restrizioni dovute all’isolamento e i problemi economici ancora una volta si accaniscono su una parte debole della società: quella che non ha voce, quella che resta invisibile anche – e forse di più – nella pandemia.  

In Bolivia dal 2009 esiste una legge che contrasta le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, ma com’è la realtà per una persona lgbti?

K: In Bolivia esistono effettivamente leggi, come quella a cui ti riferisci (la legge 045) e anche molte altre normative che tentano di impedire le discriminazioni,  esistono addirittura leggi municipali che proteggono la popolazione lgbti, ma tutto questo pur essendo un buon inizio, non cambia la mentalità delle persone e non cambia una realtà, che abbastanza crudele con noi: le aggressioni fisiche, quelle psicologiche e anche crimini di odio contro chi esprime liberamente il proprio orientamento sessuale, sono all’ordine del giorno. E rimangono delitti per la maggior parte (per non dire tutti) ignorati dalla giustizia boliviana. Il contesto attuale è però particolarmente penoso per molti di noi: la pandemia da un lato e le politiche di questo governo transitorio che impone la religione cattolica come forma di vivere e di governare hanno peggiorato le condizioni di molte persone lgbti.

J: La legge che la “nuova costituzione” ha introdotto è stata usata soprattutto per difendere la popolazione indigena e afro boliviana da forme di razzismo, per quanto riguarda la popolazione lgbti è stata poco usata e non ha fatto cessare i crimini di odio contro di noi, né all’interno della stessa popolazione indigena, né delle autorità, inclusa la polizia. Negli ultimi anni si contano 60 transfemminici ma solo uno è arrivato davanti a una corte. Siamo vittime di attacchi, minacce, di aggressioni fisiche e verbali, ma le persone lgbti in quasi nessun caso denunciano, per timore di essere derise, per mancanza di denaro per pagare gli avvocati, per paura di non ottenere giustizia. E la situazione non sembra poter cambiare a breve”. Nel 2016 è stata approvata la legge per l’identità di genere e in molti di noi l’hanno usata, ma nel novembre del 2017 il Tribunale costituzionale l’ha definita incostituzionale, su sollecitazione di alcuni deputati conservatori, e ha lasciato così molte persone senza documenti, e senza diritti sociali, civili e politici. Ci negano tuttora il diritto di adozione, di riservatezza (cioè dobbiamo sempre dire in tutti gli ambiti che siamo persone trans) e di rappresentanza politica. Abbiamo fatto un passo avanti e tre indietro.

Come sono nate Keiko e Jessica e la loro coscienza politica di attiviste?

K: Sono attivista per i diritti umani da più di 18 anni, ho iniziato il mio attivismo con un piccolo gruppo di amiche in un’organizzazione di salute che si riuniva in case private soltanto per distribuire preservativi e dare informazioni di prevenzione e lotta all’aids. Ancora, in quel momento, vivevo “nell’armadio” come si dice qui. Mi camuffavo, visto che la mia famiglia non lo sapeva ancora. Ho finito gli studi primari e secondari come quel ragazzo che facevo finta di essere e per mantenere tranquilla la mia famiglia. La pressione sociale era molto forte. Però non vedevo l’ora di riunirmi ogni giovedì con il mio gruppo lgbti dove essere chi volevo senza fingere. Una volta preso il diploma me ne sono andata subito a La Paz e qui ho seguito “le coordinate dell’arcobaleno”: ho conosciuto molti leader lgbti che sono stati fondamentali perché io continuassi questo percorso e questa volta senza vergogna. Sono bastati 5 anni a La Paz per farmi tornare al mio paesello pronta per camminare a testa alta e tornare a casa come quella ragazza che sempre sono stata e che non mi avevano permesso di essere. Da quel momento non ho mai smesso la lotta, con l’aiuto della mia famiglia, che ha capito, e l’appoggio dei leader di tutto il paese. Oggi sono un’attivista. C’è stato un tempo in cui mi sono anche prostituita, non lo nego e non mi vergogno, anzi da quell’esperienza ho imparato molte cose e posso capire meglio le sofferenze delle persone lgbti che sono costrette a guadagnarsi così la vita, e in molti casi a perderla. Io stessa sono stata vittima di discriminazioni molte e molte volte. Nel 2013 ho deciso di entrare all’Università e adesso sto frequentando l’ultimo anno della facoltà di Scienze della comunicazione sociale all’ Università Autonoma del Beni dove sono stata anche rappresentante degli studenti. Sono inoltre fondatrice del Movimento di donne transfemministe della Bolivia, un movimento che mi fa molto ben sperare per la qualità delle donne che ne fanno parte. Adesso io sono questa.

J: A lungo sono stata l’unica artista trans in Bolivia.  Ho sempre cercato di essere un esempio e di lottare contro ogni tipo di stigma e stereotipo che non facessero realizzare i miei progetti di vita. A 19 anni avevo già ben chiaro di voler diventare donna ma né la famiglia, né psicologi o dottori erano pronti in quel momento (i primi emotivamente, i secondi professionalmente) e solo nel 2018, quasi dieci anni dopo, ho cominciato il mio percorso di trattamento ormonale e l’appoggio incondizionato dei miei cari. Nel mezzo ho sofferto bullismo alle scuole superiori, offese nei locali pubblici, da parte della polizia e anche negli ospedali. Ma il momento in cui mi sono sentita più discriminata è quando mi hanno messo mille ostacoli burocratici per cambiare i miei titoli professionali e il diploma con il mio nuovo nome. Il mio vero nome. Dopo tutto quello che ho fatto, lauree, borse di studio etc… contano solo i miei genitali. E questo capita a tutte noi. Per tutto questo dobbiamo ancora lottare molto.

Abbiamo visto che con l’emergenza Covid19 le persone lgbti in tutto il mondo stanno soffrendo molto perché sono accusate di essere “untori” o causa della punizione divina che sarebbe la pandemia. Che succede in Bolivia in questo periodo? 

K: E’ davvero ripugnante ascoltare e leggere queste cose, però succede anche qui: sono persone ignoranti o fondamentalisti di qualche religione che tendono a credere a questa barbarie e a generare più discriminazione, rifiuto e odio di quello che già dobbiamo subire. Ma nella maggioro parte dei casi siamo “invisibili”: molte ragazze trans non sono tenute minimamente in conto dalle istituzioni perle quali semplicemente non esistono, anche se si riempiono la bocca di “aiuti alla popolazione vulnerabile”. Se qualcuno riceve aiuto è perché deve elemosinarlo, come se non lo meritassero o non ne avessero necessità. Questa pandemia ha cambiato la mia vita perché mi ha separato da molte persone care, dal lavoro, dallo studio e dagli amici, ma sono sicura che molte persone lgbti non sono state “separate” anche da molti dei diritti umani: la vita, la salute, la famiglia, il cibo.

J: In questo periodo siamo sicuramente un gruppo a rischio, vulnerabile. Molte persone lgbti per guadagnarsi da vivere fanno lavori informali o hanno piccoli negozi che ora devono stare chiusi. Altri vivono in povertà e guadagnano denaro per strada. Sono soli, molti non hanno famiglia e sicuramente molti stanno affrontando fame e disperazione Per fortuna ci sono associazioni lgbti che sono riuscite a trovare qualche fondo e aiutare i più deboli e i più poveri. Per molti inoltre il problema è poter continuare il trattamento ormonale e avere accesso ai medicinali che per motivi legati alla quarantena, non si trovano più.

 

17 maggio 2020