Stare a casa…in ottica di genere. Tante le questioni aperte.

Sono molti gli appelli e gli articoli che in questi giorni stanno uscendo per ricordarci alcune questioni che riguardano lo stare a casa. La prima questione riguarda le donne che nelle proprie case non rischiano il virus ma rischiano di essere vittime di violenza domestica senza poterne uscire. E la seconda riguarda la questione delle assistenti familiari (quelle donne che ostinatamente continuiamo a chiamare con il brutto nome “badanti”) che sembrano di nuovo scomparire nell’invisibilità a cui spesso le condanniamo.

Oggi l’obbligo di restare a casa può aumentare le donne vittime di violenza domestica e i femminicidi, per questo i centri anti-violenza delle donne stanno continuamente mandando l’appello che i centri sono aperti, che i servizi sono attivi ma soprattutto cercano di ricordare anche alle istituzioni che una donna che rischia o è già vittima di violenza deve poter uscire di casa e rivolgersi ai centri delle donne per un aiuto.

Intanto i centri anti-violenza delle donne, ci ricorda la loro rete italiana D.I.r.e. (Donne Italiane in rete contro la violenza) stanno affrontando questa emergenza a proprie spese (basti pensare al materiale per lavorare in sicurezza), fanno fatica a ricevere i fondi che lo Stato passa alle regioni e chiedono finanziamenti diretti, le case rifugio sono spesso piene e in questo momento qualunque percorso di autonomia è bloccato e occorre quindi averne di più, rispettando la segretezza e l’anonimato. Le donne vittime hanno bisogno di un reddito di cittadinanza minimo in un momento in cui perdono il loro lavoro riducendo ulteriormente la loro possibilità di uscire dalla violenza.

E dentro le case ci sono anche quelle donne che spesso vivono già quasi tutta la loro vita a casa: le “badanti”, quelle assistenti alle famiglie che si prendono cura dei nostri anziani, dei nostri figli/e e delle nostre case. Spesso queste donne lavorano senza diritti, sotto-pagate anche quando hanno un contratto, a cui viene chiesto di essere tutto: infermiere, consulenti, cuoche, tutto fare insomma. Solo una minoranza è regolarizzata. Inoltre l’emergenza sanitaria ha fatto morire molti anziani che erano assistiti e che per queste donne non rappresentavano solo un lavoro ma anche vitto e alloggio. Per loro perdere il lavoro vuol dire anche perdere un luogo dove stare.

Il provvedimento da 25 miliardi ha esteso la cassa integrazione in deroga a tutti, ma in uno specifico comma – il 2 dell’articolo 22 – dice che “sono esclusi i datori di lavoro domestico”. Tito Boeri è stato critico su questo punto e ha dichiarato che alla fine ancora una volta si fa ricadere tutte sulle famiglie. Ma per essere più precisi si fa ricadere tutto sulle donne, sulle quali nella maggioranza dei casi ricade questo tipo di impegno, fondamentale ma mai considerato come tale.

Alcune reti internazionali femministe stanno a loro volta lanciando appelli per ricordare alle istituzioni internazionali e nazionali che qualunque misura di emergenza deve avere un’ottica di genere e tenere conto dell’impatto sulle categorie più vulnerabili. Così ha fatto l’alleanza femminista per i diritti: il loro appello è ancora alla firma delle molte organizzazioni di donne e femministe nel mondo fino a oggi, giovedì 26 marzo.

E si sofferma su alcune questioni come disaggregare per genere il processo del virus sulle persone (la virologa Ilaria Capua sostiene per esempio che il virus colpisce molto di più gli uomini. E’ una questione di comportamento sociale o solo biologica?), garantire i diritti riproduttivi e sessuali delle donne (due stati americani, Texas e Ohio, purtroppo, approfittando dell’emergenza sanitaria hanno messo l’aborto tra le pratiche sanitarie non necessarie), promuovere un’equa divisione dei lavoro di cura all’interno della famiglia, ricordarsi di rifugiati, profughi e tra loro in particolare delle donne e bambini/e, aumentare l’impegno contro la violenza maschile sulle donne. E molto altro. E’ un appello da firmare come persone singole e come associazioni.

Ma a proposito del diritto all’aborto anche in Italia si cominciano a registrare segnali preoccupanti soprattutto nelle regioni più colpite dal coronavirus. Il già limitato esercizio del diritto all’aborto volontario per le donne, sancito dalla legge 194, a causa dell’obiezione di coscienza rischia di ridursi ancora di più a causa dell’emergenza sanitaria.

La rete Pro-Choice, rete italiana contraccezione e aborto, lancia il primo allarme e propone al Governo e alle Regioni di de-ospedalizzare l’aborto farmacologico autorizzando la procedura nei consultori, come di fatto previsto dalla legge 194, e spostare il limite dalle 7 alle 9 settimane come avviene in molti paesi europei. In Italia infatti le percentuali di aborti farmacologici sulle interruzioni volontarie è del 17,8% mentre in paesi come la Finlandia o la Svezia supera il 90%.

Stare a casa dunque non è neutro, non è uguale per tutti e tutte. Ricordiamocelo e ricordiamolo.

QUI IL DOCUMENTO DI D.I.RE  SU COVID 19 

Foto di Giorgio Benni – da sito Non una di meno. 

26 marzo 2020