Jojoba è il podcast di COSPE. Si chiama come la nostra prima rivista (1985-1992) e sarà lo strumento con cui, nel nostro 40esimo anno di età, parleremo di cooperazione internazionale e di tutti i temi su cui lavoriamo e che ci stanno a cuore.

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Episodio 2

La Chernobyl dell’Amazzonia: toxic tour in Ecuador

PAMELA: Siamo Giulia Pugnana e Pamela Cioni questo è il secondo episodio di Jojoba il podcast di COSPE dedicato alla cooperazione internazionale e ai 40 anni della nostra associazione. 

GIULIA: In questa puntata parleremo di ambiente, di Amazzonia di attivisti e di attiviste con un piccolo reportage dalla cosiddetta Chernobyl dell’America Latina. 

Jingle

PAMELA: Perforatrici e torri di combustione, pozze melmose, pompe, ciminiere e pozzi di petrolio nascosti dietro un muro di filo spinato…e poi la terra: una terra scura e limacciosa. Una terra avvelenata e tossica. Se ci metti dentro una  mano la tiri fuori nera, piena di petrolio. 

GIULIA: Siamo a Lago Agrio, “Lago Acido” in italiano, nella provincia di Sucumbios al nord est dell’Ecuador e al confine con la Colombia. Siamo in Amazzonia. Uno dei territori più ricchi e, per questo, più sfruttati al mondo. Qui, sotto questa terra, sacra a tante nazionalità indigene che da millenni ci vivono, c’è tantissimo petrolio. Un mare di petrolio. 

PAMELA: Fin dagli anni ’70 la compagnia petrolifera Texaco è arrivata a Lago Agrio per pescare da questo mare. Quello che più ha inquinato, contaminato, avvelenato questa città e i suoi dintorni, è stata però la pratica estrattiva che l’impresa petrolifera ha messo in atto deliberatamente.

DONALD: Texaco arriva qui nel 1964, perfora il primo pozzo 16 febbraio 1967 e conclude il 29 di marzo dello stesso anno. E’ un pozzo che dà molto petrolio, 1800 barili di petrolio al giorno. Per vantaggio di pochi e danno di molt dà l’inizio a tuttoi.  Da lì in poi perforano altri 356 pozzi e poi hanno costruito delle piletas, ossia  in fosse a cielo aperto scavate nel suolo senza alcun isolante dove depositano tutto quello che risulta dall’estrazione dei giacimenti, acqua, scarti di greggio etc… da lì in poi   hanno costruito 857 piletas, 22 stazioni di separazione  e 1700 km di vie di accesso.  Una volta che iniziarono a estrarre petrolio, iniziarono a estrarre anche  gas e acqua. Ma a loro interessava solo il petrolio. Quindi ci hanno lasciato il resto: parliamo di cifre come 20 miliardi di metri cubi di gas, che è stato bruciato qui nelle ciminiere e 60miliardi di litri di acqua sporca che, invece di essere re-iniettata a 2 km sotto terra, è stata dispersa nel terreno o direttamente nei fiumi. La tecnica di reimmettere l’acqua nei pozzi era già conosciuta e usata da Texaco negli Stati Uniti già dal 1962, cioè 10 anni prima che qui si cominciasse a estrarre petrolio in grande scala, ma si trattava di una pratica costosa 3 dollari a barile, mentre lo sversamento nell’ambiente circostante Lago era a costo zero per l’impresa. Stiamo parlando di un risparmio economico impressionante per loro, ma ora questo risparmio si riflette nelle malattie e il disastro ambientale che hanno causato qui. Stiamo parlando di un ecocidio. Perchè quest’acqua non è che è svanita. E’ sempre qui. Continua a inquinare le nostre vite. E’ venuta l’impresa e ci ha lasciato tutta la sporcizia.  Siamo stati la loro pattumiera.

PAMELA: Donald Moncayo, agricoltore e coordinatore dell’Unione delle vittime della Texaco, la UDAPT (Unión de los afectados por la petrolera Texaco), conosce ogni angolo di questa terra e ogni dato relativo ai danni che decenni di estrazione petrolifera hanno causato sull’ambiente e sulla salute delle persone.  

DONALD: Il  mio nome è Donald Moncayo, sono nato qui a Lago Agrio il 20 novembre del 1973, a duecento metri dal secondo pozzo che la Texaco, oggi Chevron, perforò qui nell’Amazzonia ecuadoriana. Oggi sono il coordinatore dell’ UDAPT associazione delle vittime della Texaco. Questa organizzazione riunisce circa 40mila persone e 133 comunità indigene

Io coordino i diversi progetti che abbiamo, e seguo le varie cause che abbiamo con le imprese petrolifere: non solo Chevron ma anche petroecuador, con Enap petrol, Andes petroleum, Gran Tierra Energy etc..

Noi siamo quelli che con le comunità stiamo affrontando tutti i problemi ambientali che sono stati causati, oltre alle divisioni sociali e i  problemi di salute.  E allo stesso tempo cerchiamo alternativa a tutti questi problemi. Soprattutto cerchiamo  riparazione a tutto questo.  

GIULIA: La vicenda che ha visto le vittime da contaminazione contro la Texaco – che nel 2000 è stata acquisita da Chevron ed è uscita dal paese –  è abbastanza nota, ma non se ne parla mai abbastanza perché, ad oggi, tutte queste persone non hanno avuto giustizia: i cittadini riuniti prima nell’associazione Frente de Defensa de la Amazonía (fin dal 1993) e poi nella UDAPT hanno fatto una causa miliardaria a Texaco/Chevron, condannata nel 2011 dalla Corte costituzionale dell’Ecuador (con conferma nel 2012 e infine nel 2018) a pagare 18 miliardi di dollari alle vittime. 

PAMELA: La sentenza non è mai stata eseguibile perché di fatto la Chevron ha venduto, con il passare degli anni, tutte le sue proprietà e svuotato i conti correnti. Quando la sentenza è diventata definitiva sul conto corrente di Chevron c’erano solo 350 $. Inoltre, grazie ai suoi 2400 avvocati e miliardi in consulenze legali, è la Chevron ad aver fatto causa alle vittime per “frode”. La causa è stata vinta con una sentenza della corte europea di arbitrato dell’Aja che ordina all’Ecuador di annullare la sentenza della Corte Costituzionale perché sarebbero “i diritti costituzionali della Chevron” ad essere stati violati. 

GIULIA: E mentre la Chevron si lamenta dei danno di immagine, noi continuiamo con Donald a visitare i luoghi dell’inquinamento, facciamo il Toxic Tour, un modo per far toccare con mano anche a chi viene da fuori, soprattutto ai media, come si vive qui. 

DONALD: Il Toxic tour è nato durante la prima udienza con Chevron. Quando arrivò qui la stampa da tutto il mondo e volevano vedere i danni per cui stavamo facendo causa all’impresa.  Io sono nato qui quindi conoscevo bene tutto. Ho camminato in sentieri di petrolio, avevo i vestiti macchiati di petrolio, le mani macchiate di petrolio. L’ho respirato. Mi fu molto facile portarli a vedere tutti i luoghi dove si vedevano chiaramente i danni ambientali causati dalla Texaco/ Chevron. 

Però il nome gli fu dato nel 2005 e lo hanno inventato gli studenti dell’università salesiana che vennero a vedere i luoghi contaminati e dissero: è come fare turismo, però in luoghi contaminati. E’ come fare un toxic tour. Si deve chiamare così: Toxic tour. 

PAMELA: E Il toxic tour parte dal pozzo numero 1: una grande trivella di metallo che oggi sembra innocua.

DONALD: Qui dietro di me c’è il primo pozzo che perfora Texaco nell’amazzonia ecuadoriana, per perforare questo pozzo, distrussero 10 ettari di bosco primario, alberi di vecchi di 400, 500 anni furono abbattuti. Tutto questo infatti era bosco, era selva pura. Per i cofàn questa zona era sacra e si chiamava Amisacho (amisacio). E dato che non c’erano strade, tutti i macchinari furono trasportati per via aerea. Il 29 di marzo, il giorno che cominciò a fluire il petrolio da qui, ci fu  una grande inaugurazione. Lo racconta  la stampa dell’epoca. Parteciparono tutte le istituzioni, rappresentanti del governo ecuadoriano. il ministro di allora, gli amministratori dell’impresa etc…  Si racconta che quando  aprirono la valvola il petrolio saltò a 160 metri di altezza e tutti si bagnarono nel petrolio perché in quel momento secondo loro nasceva il nuovo ricco in Ecuador. Ad oggi nel cartello che vediamo qui dietro, si dice che questo pozzo che ha prodotto 10 milioni  di barili di petrolio, soltanto questo pozzo e intanto qui intorno non c’è neppure l’acqua potabile. 

Quello che c’è invece sono le fosse, le cosiddette piscine, piene degli scarti dell’estrazione e i fiumi contaminati. Perchè tutto questo petrolio di prova fu  gettato nel torrente qui dietro che va nel fiume Santa Cruz, poi al fiume Teteye che poi sfocia nel rio Aguarico si unisce al fiume Napo che attraverso il Perù arriva al Brasile e arriva nell’oceano atlantico con tutta la porcheria che la texaco buttò qui.  Quest’inquinamento sta avvelenando tutto il pianeta e tutti i nostri mari. 

GIULIA: I numeri sui tumori e le malattie che ci dà Donald mentre ci mostra i luoghi del disastro, sono impressionanti e le ricadute nocive dello sfruttamento scellerato e intensivo di questa zona dell’Amazzonia sono praticamente permanenti, tanto da essere definita la Chernobyl dell’America Latina.

DONALD: Da aprile 2021 ad oggi abbiamo registrato 457 casi di tumori, più 150 le persone morte. La cosa più spaventosa è che i tumori colpiscono per il 70% le donne e il 28% negli uomini. Ma muoiono di più gli uomini, perchè agli uomini viene soprattutto il cancro allo stomaco. L’altro dato che abbiamo è che la maggior quantità di tumori che abbiamo sono soprattutto intorno ai pozzi di petrolio e delle ciminiere. Parliamo di cancro ai polmoni, alla gola, al seno, all’utero … e inoltre leucemia per i bambini che è la terza causa di morte. 

PAMELA:  Ma quello che colpisce ancora di più è che la media delle persone che muoiono è dell’80%, soprattutto per mancanza di cure adeguate. A Lago Agrio infatti non c’è un ospedale oncologico, le persone malate, devono andare fino a Quito, 20 ore di auto, per farsi curare, per cercare le medicine giuste, per fare chemioterapia. Tra loro c’è anche Doña Marlene 40 anni e 3 figli da 7 anni sta lottando con un tumore al pancreas. 

MARLENE: Mi chiamo Marlene Paredes. Vivo qui da molti anni.  Sto per raccontare una piccola e triste storia su cosa la contaminazione ha causato e sta causando ancora sulla nostra carne. Spero  che capirete e che mi scuserete per quello che vi dirò sui momenti che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo sulla nostra carne viva. (togliere domanda di Donald) . Vicino al pozzo 1 avevamo la nostra finca, la casa e dove abbiamo vissuto a lungo. A un certo punto si sono ammalati i miei suoceri e mio cognato. Ci dissero che era cancro. Prima è morto mio cognato con un cancro allo stomaco, poi mia suocera con lo stesso cancro e poi mio suocero. Lui aveva un cancro ai polmoni. Da lì è cominciato il nostro calvario. Perché anche io sono una sopravvissuta del cancro, che grazie a dio, anche se non mi sento ancora benissimo ma sì, ho ancora voglia di vivere. Sono 7 anni che sto lottando e sono momenti molto difficili quelli che ho passato e che sto passando. E chissà cosa dovrò passare fino a che sarò in vita. Come dicevo, dopo che morirono i miei suoceri decidemmo di spostarci in questo luogo. Abbiamo sofferto molto e in quel periodo anche mio figlio che aveva solo 9 anni, si è ammalato. Ma per fortuna l’abbiamo recuperato perfettamente. Poi però ho cominciato io, sono 7 anni che sto lottando e continuo a lottare. Come dicevo ci siamo spostati vicino al pozzo 4. Anche qui è tutto inquinato, soprattutto l’acqua. Siamo scappati da uno e siamo caduti in un altro.

Il trattamento è lungo, ma  volte per motivo di denaro devo interromperlo. Adesso sono sotto trattamento perché negli ultimi 3  mesi ho dovuto fare 5  operazioni. Sto recuperando piano piano anche se ho un po’ di problemi a una gamba. Comunque per ora tutto va bene, con la benedizione di Dio. 

Tutti noi abbiamo diritto ad avere una vita pulita, sana. Una vita degna, quella che tutti meritiamo, poveri o ricchi. Perché avere una malattia in famiglia è dura, dura. Che dobbiamo fare? Qui non è possibile nemmeno avere un trattamento. 

Per ora, grazie a Dio, andiamo avanti grazie allo stipendio di mio marito. Anche se non è un lavoro che si merita. Tutti quelli che lavorano alla bonifica sono quotidianamente esposti alla contaminazione. Due mesi fa, infatti, è morto anche un collega di mio marito. So che il denaro importante ma…Non c’è lavoro, che dobbiamo fare? Non abbiamo scelta. 

GIULIA: Il marito, come molti qui, lavora proprio alla bonifica dei pozzi per l’azienda statale “Amazonia Viva”. “L’impresa ti fa ammalare e per curarti devi lavorare per loro -chiosa Donald-  Sono dei paradossi crudeli”. Un altro paradosso: si tratta di una bonifica-maquillage che consiste nel ricoprire le piscine di sversamento, e che intanto continua a mietere vittime, perché le persone che lavorano in queste attività lo fanno senza alcuna protezione e sicurezza, scavando nella terra con attrezzi rudimentali, toccando il greggio e respirando miasmi. Morti su morti, su morti. 

PAMELA: Marlene come Donald, come molti altri qui, però non hanno scelta. Non possono e non vogliono allontanarsi da questo luogo che è casa loro, anche se sanno bene che ogni goccia d’acqua è veleno in più per il loro organismo o che ogni ortaggio coltivato nella melma nera è potenzialmente mortale. L’unica cosa che possono ancora continuare a fare è  lottare, come Davide contro Golia. 

DONALD: Dico sempre, e sembra una battuta ma non lo è, stiamo lottiamo con il diavolo nel suo stesso inferno. Perchè Lottiamo contro un sistema che nessuno vuole davvero smantellare. Nessun governo nel mondo vuole davvero affrontare un’impresa come Chevron.  Chevron può essere 20 volte più milionaria dello stesso stato ecuadoriano. Ha i soldi per comprare  la stampa, i governi, gli avvocati… Solo in questo processo ha contrattato più 2400 avvocati per difendersi. Noi ne abbiamo 3. Quello che fanno adesso, insieme allo stato ecuadoriano, è fare causa ai nostri avvocati per “furti di galline”, cose minime,  per tenerli  impegnati, perchè non abbiano tempo di continuare la causa.  E’ davvero come lottare con  diavolo nel suo stesso inferno. 

GIULIA: COSPE in Ecuador e in Colombia ha attiva la campagna Amazzonia che tra gli obiettivi ha quello di denunciare e raccontare le storie di saccheggio, invasione e inquinamento di queste zone e la resistenza dei popoli indigeni. 

Jingle – si fa presto a dire ong 

PAMELA: Per la rubrica in collaborazione con info.cooperazione oggi parliamo di  COME SI FINANZIANO LE ONG?

La maggior parte delle ONG opera grazie a una combinazione di finanziamenti privati e pubblici. Per finanziamenti privati si intendono le donazioni liberali di individui, organizzazioni, benefattori, filantropi e/o aziende. I finanziamenti pubblici sono invece contributi alla realizzazione di specifici progetti ad opera di istituzioni come Unione Europea, agenzie delle Nazioni Unite, Ministeri, enti locali, agenzie governative, ecc. I finanziamenti pubblici vengono di norma assegnati attraverso la partecipazione a bandi pubblici e/o altre procedure competitive che hanno procedure stringenti e garantiscono la trasparenza e la regolarità di questi procedimenti.

Secondo i dati del portale Open Cooperazione le principali ONG italiane hanno in media il 60% di entrate da donatori istituzionali e il restante 40% da fondi raccolti da donatori privati. I dati mostrano che i donatori pubblici più rilevanti per le ONG di cooperazione sono (in ordine di importanza) il MAECI/AICS, l’Unione Europea, le Regioni e gli enti locali, le agenzie delle Nazioni Unite. Le fonti più importanti di donazioni da privati sono (in ordine di importanza) i versamenti da parte di individui, il 5×1000, le donazioni da parte di aziende, i finanziamenti delle fondazioni e delle chiese. Esistono alcune organizzazioni che per scelta non utilizzano nessun finanziamento pubblico, operando quindi solo grazie a donazioni private.

Questo mix di diverse fonti di entrate garantisce la sostenibilità economica e finanziaria della maggior parte delle organizzazioni che devono quindi rendere conto del loro operato a tutti i finanziatori con diverse modalità e regole specifiche. Essere trasparenti e mantenere una buona reputazione con il pubblico è vitale per le ONG in particolare quelle come COSPE che operando sul territorio ed essendo sempre esposte all’opinione pubblica devono rendere conto quotidianamente delle proprie attività e dei risultati che raggiungono.

GIULIA: Uno strumento di trasparenza per le ong e le associazioni del terzo settore è il Bilancio sociale, anche questo segue regole e una metodologia ben precisa, misura impatti, finalità e uso dei fondi oltre a raccontare l’anima delle associazioni stesse. COSPE lo realizza da 15 anni e in uno dei prossimi podcast parleremo anche di questo. 

 

PAMELA: Avete ascoltato il secondo episodio di Jojoba il podcast di COSPE. Per approfondimenti www.cospe.org

Jingle finale. 

Episodio 1

INTRO

Salomè: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. La discriminazione razziale non è ammissibile nella società e dobbiamo intensificare gli sforzi per garantirne la completa eliminazione. Quest’anno non festeggiamo solo la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, il 21 marzo: celebriamo anche il 75º anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento rivoluzionario adottato da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite che garantisce a ognuno, senza discriminazioni, tutti i diritti umani. 

Eppure…

Pamela: Siamo Giulia e Pamela. E questo è ufficialmente il primo numero di Jojoba, il podcast di COSPE, dedicato alla cooperazione internazionale e ai 40 anni della nostra associazione. 

Giulia: Questa puntata è interamente dedicata al fenomeno del razzismo con una riflessione profonda sulle sue origini, sul concetto di razza, e sulle lotte antirazziste. 

Pamela: La cooperazione internazionale, almeno così come l’ha concepita COSPE fin dagli esordi si occupa anche di questo.

Giulia: E il nostro impegno in questo ambito risale appunto alle origini stesse della nostra organizzazione. Quaranta anni fa. Anni in cui eravamo sicuramente dei precursori.

Pamela: Ora probabilmente penserete che non ci è riuscito benissimo questo lavoro visto come siamo messi oggi, ma vi assicuriamo che ce l’abbiamo messa tutta. E continuiamo a farlo. 

Stai ascoltando Jojoba, il podcast di COSPE che ti racconta il mondo della cooperazione internazionale: storie, notizie, eventi, campagne e approfondimenti. È on-line ogni ultimo venerdì del mese.

Pamela: È stato grazie a Luciana Sassatelli, fondatrice e prima presidente di COSPE e David Johnson, esperto inglese di formazione sull’antirazzismo che nel lontano 1986 i giovani della neo nata associazione COSPE iniziarono a formarsi e a lavorare su questi temi. Come spesso accade per casualità. O forse no.

Maria Donata: COSPE ha iniziato ad occuparsi di immigrazione e migrazioni, razzismo e antirazzismo, in tempi non sospetti molto prima della maggior parte delle Ong italiane. Come spesso accade l’inizio fu frutto di una sorta di casualità: a Firenze la fondatrice di COSPE Luciana Sassatelli aveva conosciuto un esperto inglese di formazione sull’antirazzismo che lavorava per il City Council di Londra proprio sulle tematiche dell’educazione all’antirazziemo, della formazione antirazzista, della diversità razziale e fu chiesto a questo consulente di organizzare un primissimo corso di formazione per i collaboratori e le collaboratrici di COSPE nell’estate del 1986.
A Londra nel 1986, nel luglio del 1986 ricordo il tempo londinese, la pioggia, il freddo nonostante la stagione apparentemente estiva e 4 persone intorno ad un tavolo con quattro tazze di tè al latte bollente (io personalmente non ho mai amato il tè con il latte). La prima persona che ci ha aiutato in questo percorso – David Johnson – tornò in Italia l’anno successivo insieme ad una sua collega e continuarono con noi questa formazione, che poi è stata ripresa e realizzata come formatori e formatrici da alcuni nostri colleghi e colleghe, come Udo e Marina Pierazzi, rimasti/e a lungo collaboratori/trici di COSPE e hanno portato avanti questo filone di lavoro per tanti anni. Come invece progetti veri e propri di cooperazione e intervento sul tema dell’immibgrazione, anche in questo caso le origini sono abbastanza antiche e legate ad un incontro più o meno casuale della fondatrice di COSPE con un docente dell’Università di Firenze, allora il direttore della scuola di Scienze Sociali, il quale aveva avviato con alcune sue studentesse un corso di ricerca-azione partecipata sulle comunità e le persone di recente immigrazione nel territorio di firenze e provincia. Insieme a COSPE fu quindi elaborato un progetto di ricerca con la comunità filippina. Il training antirazzista – iniziato a partire dal 1986 e proseguito poi per tutta la fine degli anni 80 e tutto il decennio tra il 90 e il 2000, che ha poi interessato persone sempre diverse: insegnanti, mediatori e mediatrici, funzionari pubblici, le forze dell’ordine, polizia e più recentemente appartenenti ad altre istituzioni – e la ricerca-intervento con la comunità filippina, sono da considerarsi le primissime attività che COSPE ha svolto sul tema dell’immigrazione e dalle quali sono poi nati moltissimi altri progetti e filoni di lavoro.

Pamela: Ringraziamo ancora per questo bel ricordo Maria Donata Rinaldi, collega e memoria storica di COSPE.

Giulia: Tante cose sono ovviamente cambiate in questi quarant’anni. La grande ricchezza di COSPE è stata avere al proprio fianco tante persone con cui lottare per un’idea comune di futuro e società. Abbiamo imparato tanto dalle battaglie dei giornalisti di origine straniera in Italia per essere riconosciuti a livello professionale. Siamo stati al fianco dei figli e delle figlie di immigrati, che hanno fondato la rete G2, “Seconde Generazioni”. E oggi collaboriamo con tante realtà italiane.

Pamela: Una cosa che è cambiata nel tempo, per fortuna, è il concetto di “razza”: oggi è chiaro, scientifico, appurato, dichiarato, le razze non esistono. Ma i razzismi sì. Il perché ce lo spiega chiaramente e diffusamente Federico Faloppa, professore di linguistica e italianistica al dipartimento di lingue e culture dell’Università di Reading in Inghilterra.

Federico Faloppa: Le razze non esistono. Ce lo dice la scienza. E anche il concetto di razza è abbondantemente superato. La stessa scienza che in passato aveva teorizzato le razze umane, lo ha fatto per almeno un secolo. Come ci spiega Guido Barbujani, genetista, grazie proprio alla genetica ha dimostrato che il concetto di razza non è sostenibile. Non è sostenibile il concetto di razza geneticamente, biologicamente, anche da un punto di vista delle neuroscienze. E quindi questo concetto – razza, razze al plurale – viene in qualche modo fatto uscire dalla porta principale del dibattito scientifico e accademico. Questo però non significa che il razzismo sia scomparso, anzi. Intanto il concetto sopravvive molto nella menti delle persone. Lo vediamo nel dibattito politico e pubblico, anche se non articolato intorno alla parola razza, ma magari a concetti e parole come etnia, cultura, identità, parole iconiche, parole feticcio, che segmentano la natura umana in categorie discrete e che hanno sostituito la parola e il concetto di razza, proprio perché questa non era più sostenibile. Il rapporto tra razza e razzismo – scrive Marco Aime in un libro, a cui ho partecipato anche io, contro il razzismo, pubblicato nel 2016 – non è lo stesso rapporto che abbiamo con materia e materialismo o idee e idealismo. In questi casi, scrive Marco Aime, tendiamo a pensare ai primi termini come radici e ai secondi come i derivati. Nel caso del razzismo il rapporto si inverte: è il razzismo la causa scatenante che spinge a teorizzare o più semplicemente concepire la razza. La razza non è quindi la causa del razzismo, ma il suo pretesto, il suo alibi ed è per questo che oggi il razzismo esiste, anche in assenza di razza o di razze da un punto di vista scientifico e accademico. E infatti non credo che basti togliere la parola “razza”, ad esempio dalla Costituzione o dai testi giuridici, per eliminare il razzismo. Capisco perché antropologi e antropologhe facciano una battaglia in questo senso, vogliono eliminare la parola “razza”, per esempio dall’articolo 3 della nostra Costituzione. Tuttavia, come ho scritto in passato, non credo che questo basti e anzi penso possa anche essere una lama a doppio taglio. Quell’articolo della Costituzione fu scritto proprio per rispondere al razzismo reale, che aveva creato milioni di morti, l’olocausto e io credo che quel concetto di razza, in quell’articolo della Costituzione, storicamente contestualizzato, debba rimanere debba rimanere, proprio per raccontarci che il 900 ha fatto della razza un feticcio, un monolite, un totem e del razzismo una delle sue più grandi tragedie.

Pamela: Infatti, come scrive l’analista Enzo Risso su Il domani del 28 gennaio 2023, “Ancora oggi il 43 per cento del paese ritiene che le persone non siano tutte uguali e che ci siano differenze di “razza”. Una convinzione più forte nella popolazione over 50 (46 %) e più flebile tra millennial e generazione Z (32%). 

Giulia: Tutto questo si traduce molto spesso in atteggiamenti violenti, molesti, discriminanti: solo nel 2022 l’Unar– Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, segnala 1400 casi di discriminazioni razziali. Lunaria, associazione che dal 1996 promuove attività di ricerca, informazione e campagne sul tema delle migrazioni e contro il razzismo, sempre nel 2022,  ha documentato un totale di 357 casi di razzismo: 51 casi di discriminazione istituzionale o da parte di soggetti privati, 8 classificati come danni a proprietà o cose, 236 di violenza verbale, ovvero casi di minacce, informazione discriminatoria da parte dei media e infine 62 casi di violenza fisica: aggressioni, maltrattamenti, omicidi. 

Pamela: A volte, spesso, il razzismo è ancora più “ordinario” e strisciante e infatti Lunaria scrive questo bell’incipit per raccontare il perché del loro lavoro per l’osservatorio razzismo e noi lo abbiamo fatto nostro: Autobus, treni, discoteche, ristoranti, alberghi, stadi, negozi, radio, tv, giornali, campi di calcio, chiese, scuole, luoghi di lavoro, cimiteri, strade, condomini, supermercati, servizi pubblici, commissariati, tribunali e sedi istituzionali di ogni livello e, naturalmente, l’infinito groviglio della rete: lo spazio del razzismo quotidiano non ha confini e gli anticorpi culturali, sociali, politici e istituzionali per restringerlo sono ancora del tutto insufficienti e inadeguati.

“(…) Ero all’agenzia delle entrate con il mio commercialista e il segretario che doveva occuparsi della mia pratica mi ha chiesto il permesso di soggiorno. All’epoca io ero già cittadina italiana, avevo già ottenuto la cittadinanza italiana. Quando io gli ho mostrato la mia carta d’identità, lui non l’ha nemmeno guardata, non mi ha degnata di uno sguardo e ha continuato a chiedermi il permesso di soggiorno.”

Giulia: A parlare era Sabrina Efionayi, autrice del libro Addio, a domani: La mia incredibile storia vera, ospite di un evento che abbiamo organizzato a Firenze insieme a IParticipate, durante la settimana di azione contro il razzismo.

Pamela: Il groviglio della rete è analizzato invece da VOX, osservatorio dei diritti, che ha da poco realizzato la 7a mappa dell’odio grazie alla ricognizione dei tweet discriminatori dell’ultimo anno. Il risultato rispetto a stranieri e migranti è che – incredibile –  rappresentano la categoria sociale con una percentuale più alta di incremento di tweet negativi rispetto al 2021. 


“Quando sei una persona dalla pelle nera, purtroppo in alcuni paesi è quasi inevitabile incontrare episodi di razzismo.”

Giulia: E gli antirazzismi a che punto sono?

Federico Faloppa: Sulle stesse voci, accademiche o della società civile, che si sono prese la scena negli ultimi trent’anni pensando di rappresentare la società, ma realtà spesso rappresentando solo loro stessi. Ecco, bisogna aprire gli spazi, mettersi in discussione e partire dallo stesso concetto di razzializzazione, di persone razzializzate. Chi razzializza chi? Come avviene la razzializzazione? Quando? Sono domande importanti, che in qualche modo fanno avanzare il dibattito sul razzismo e anche l’azione di contrasto al razzismo, ma che ci obbligano ad aggiornare metodi, approcci, contenuti e soprattutto coinvolgere nel dibattito, nella decostruzione di un discorso razzista – sia esplicito che “democratico” – anche e soprattutto le persone cosiddette razzializzate. Spesso l’antirazzismo, non solo in Italia, ha parlato in vece di qualcun altro, pensando di poter rappresentare le persone razzializzate, ma non capendo fino in fondo le dinamiche del razzismo, non spiegando fino in fondo quali fossero gli stilemi che nel discorso antirazzista purtroppo riproducevano anche alcune categorie razziste, razzializzanti. Ecco, in questo caso ci vuole un modo diverso di combattere il razzismo, di fare discorso pubblico e politico, di fare massa critica ma anche di fare movimento collettivo intorno a questo tema. Non soltanto le persone razzializzate devono fare parte di questo dibattito, ma devono in qualche modo condurlo. Non devono avere uno spazio come se fossero in una teca di un museo: “Ecco le persone razzializzate, vedete quanto siamo bravi? Le abbiamo coinvolte”. Non devono avere una funzione soltanto di rappresentanza simbolica. Devono essere il motore, queste persone, i loro movimenti, la loro azione politica, del cambiamento. Perché per prime loro hanno subito il razzismo, perché per prime loro si sono confrontate con il privilegio anche dei movimenti antirazzisti (il privilegio bianco, ad esempio, o italocentrico). Bisogna invece avere una moltitudine di voci, una molteplicità di punti di vista, bisogna accogliere i discorsi anche dirompenti, anche provocatori, anche in qualche modo potenti da un punto di vista della posizione politica,  nuovi, di rottura delle persone razzializzate; che ci raccontano un presente ma che ci disegnano anche un futuro diverso, che non può essere soltanto ricalcato sugli stessi schemi, sugli stessi privilegi, sulle stesse persone che hanno visibilità, mentre molte altre vengono invisibilizzate.

Pamela: Il razzismo è un fenomeno strutturale nella nostra società e come tale va studiato, affrontato e combattuto. Abbiamo appena eletto un governo di estrema destra che ha creato e sta creando un clima di legittimazione, se non incoraggiamento, per discriminazioni e intolleranze nei confronti di minoranze in senso lato e possiamo aspettarci un peggioramento delle leggi sui diritti civili, che già sono assolutamente antiquate ed inadatte alla realtà in cui viviamo. Occorre quindi restare all’erta, non retrocedere, ma rilanciare i valori di equità in cui crediamo ed essere ancora più efficaci nella nostra azione, con parole, strumenti e pratiche che necessitano di rinnovamento.

Pamela: Per la rubrica “Si fa presto a dire ong”, che no, non sono cose che si mangiano, ecco un’altra pillola informativa a cura di info.Cooperazione. Grazie a cui, oggi per esempio sfatiamo un piccolo mito.  

Pamela: Chi sono le Ong in Italia? Da un punto di vista normativo le ONG in Italia non esistono. L’unica legge che citava esplicitamente le ONG era la legge 49 del 1987 che disciplinava la cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo. Dal 2016 quella legge è stata abrogata in favore della riforma della Cooperazione allo sviluppo emanata con la legge 125. Questa nuova legge ha eliminato il riconoscimento alle ONG istituendo in sostituzione un elenco delle Organizzazioni della Società Civile (OSC) ed altri soggetti senza finalità di lucro attive nella cooperazione allo sviluppo. 

Quelle che vengono comunemente chiamate ONG sono organizzazioni che hanno diverse forme giuridiche a seconda delle legislazioni nazionali. In Italia la maggior parte sono costituite sotto forma di associazione, è questo il caso di COSPE, o di fondazione poichè non esiste nel nostro paese una natura giuridica di ONG. 

A titolo esemplificativo, secondo i dati di Open Cooperazione (portale di open data delle ONG italiane che si occupano di cooperazione e aiuto umanitario) il 67% di queste organizzazioni hanno natura giuridica di Associazione, l’11% di ODV (Organismo di volontariato), il 10% di Fondazione e il 6% di APS (Associazione di Promozione Sociale).

E’ quindi scorretto utilizzare, come fanno spesso i media e la politica, il termine ONG per indicare una specifica categoria di organizzazioni.   

Giulia: Avete ascoltato il primo numero di Jojoba, il podcast di COSPE.  

Pamela: Per approfondimenti  www.cospe.org  e retecontrolodio.org 

Episodio 0

Presentazione.
Siamo Giulia Pugnana e Pamela Cioni di COSPE e questo è il numero zero del nostro podcast Jojoba, tutto dedicato al mondo della cooperazione. 

In questo numero presenteremo la nostra associazione, vi faremo ascoltare alcune voci di colleghi e colleghe che ci raccontano perché lavorare in questo ambito e quali sono stati i loro primi passi qua dentro.

Inaugureremo inoltre la rubrica: “Si fa presto a dire ong”, in collaborazione con info.cooperazione per raccontare cosa c’è dietro ad alcune sigle, ma anche per sfatare luoghi comuni e stereotipi che circondano questo mondo. Cosa significa ong, quali sono e come si finanziano. Chi le controlla? senza di loro arriverebbero meno migranti? 

 

INTRO: Stai ascoltando Jojoba, il podcast di COSPE che ti racconta il mondo della cooperazione internazionale: 


Audio Maria Donata.
Chiunque abbia partecipato al progetto di una rivista sa che la scelta del nome avviene normalmente in una riunione dei promotori che, seduti intorno ad un tavolo, danno via libera alla loro fantasia, inventando i nomi più assurdi. Noi non abbiamo fatto eccezione e tra un banale “Cospe notizie” e un troppo ironico “Cosperante”, abbiamo scelto Jojoba. Per quei pochi che non sanno cosa vuol dire, colmiamo la lacuna, dicendo che la Jojoba è una piantina piccola, simpatica, che cresce con pochissima acqua e che dicono può fermare il deserto. Noi siamo una delle ultime ong, siamo piccoli, forse anche simpatici, non credo che fermeremo il deserto, ma tant’è: il nome c’è piaciuto e lo abbiamo scelto.

Giulia
E questo era l’editoriale del direttore responsabile Ettore Gabbato per il primo numero di Jojoba, la newsletter di COSPE dal 1985 al 1992 letto da Maria Donata Rinaldi tra le prime collaboratrici di COSPE. 

Pamela

Si fa presto a dire ong. La rubrica in collaborazione con info.cooperazione.it


Jingle VOX POPULI
ONG che sarebbe? Organizzazioni non governative. Ah, io pensavo un distributore. Di benzina. Non saprei. Un… Vuol dire tutto come niente.

 

Pamela
Cominciamo questa rubrica proprio spiegando cosa significa questa sigla e cosa ci sta dietro.

“ONG sta per Organizzazioni Non Governative: le ONG sono organizzazioni private non aventi fini di lucro, indipendenti dai governi e dalle loro politiche che ottengono almeno una parte significativa dei loro introiti da fonti private, per lo più da donazioni. Perseguono obiettivi di utilità sociale e cause politiche in vari settori, tra i più comuni troviamo la tutela dell’ambiente, la difesa dei diritti umani, la protezione delle minoranze e di specifiche categorie, la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario.

L’espressione “organizzazione non governativa” compare per la prima volta nel 1945 nell’articolo 71 della Carta costituzionale dell’ONU che prevede infatti la possibilità che il Consiglio Economico e Sociale possa consultare “organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza”.

Oggi il sistema delle Nazioni Unite riconosce alle ONG e alle OSC (Organizzazioni della Società Civile) un ruolo importante e fa affidamento sulla loro esperienza e sul loro impegno attivo in diversi settori, tra cui l’istruzione, la salute, l’eliminazione della povertà, i diritti umani, l’uguaglianza di genere e le questioni indigene per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030.

Nonostante la loro indipendenza dagli Stati e dagli organi sovranazionali, le ONG possono collaborare con le istituzioni pubbliche e ricevere contributi e/o finanziamenti per svolgere le loro attività statutarie.”

Pamela:
COSPE nasce nel 1983 come acronimo di cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti. Oggi che siamo arrivati a 40 anni è tempo di bilanci. 

Audio Francesca
A pensarci adesso non avevo neanche 10 anni quando è nata COSPE e mi sembra di conoscerla da sempre. Quanta strada abbiamo fatto da allora. Adoro ritagliarmi del tempo con le persone che c’erano nel 1983 e che possono raccontarmi come è nata quella scintilla che ha portato alla fondazione di una ONG a Firenze, come abbiamo mosso i nostri primi passi in Africa, in America Latina e anche in Italia. Da allora siamo cambiati, siamo cresciuti e ci siamo messi continuamente in discussione, ma siamo rimasti noi: un’associazione laica, impegnata in oltre 20 paesi nel Mondo, Italia inclusa, a fianco della società civile e delle comunità per sostenere i gruppi più emarginati e discriminati nelle loro richieste e nelle loro battaglie. Per la giustizia sociale, la pace, l’inclusione, l’antirazzismo, il contrasto ai crimini d’odio, i diritti umani, i diritti delle donne, l’equità tra i generi, la democrazia, la transizione ecologica. Oggi COSPE attiva ogni anno risorse per circa 11 milioni di euro, più di 100 contratti di personale solo dall’Italia (senza considerare quelli delle sedi estere), collabora con oltre 1300 organizzazioni della società civile in tutto il mondo, ha 110 progetti attivi in cui coinvolge ben oltre 90mila persone, soprattutto donne, in più con la sua scuola forma oltre 200 studenti e studentesse ogni anno. In COSPE ci sentiamo facilitatori di dialogo, sognatori, promotori di cambiamento. Io sono cresciuta tantissimo nei miei quasi 20 anni di COSPE, associazione in cui mi riconosco dal primo giorno ed ogni giorno e per la quale ho cercato di dare il meglio di me. Il COSPE di oggi si trova ad affrontare una complessità molto diversa da quella dei primi anni. Navighiamo in un mare in tempesta, il nostro è un tempo volatile, incerto, i cambiamenti sono rapidi e instabili, le cause degli squilibri mondiali sono sempre più concatenate e le minacce si concretizzano ancora prima di individuarle. Per questo noi ci interroghiamo ogni giorno. Su come essere davvero coerenti rispetto alla nostra missione. Su come rendere sempre più efficace la nostra azione. Su come interpretare le nostre sfide, su quali leve agire, su come lavorare al meglio e rendere conto in modo trasparente di quello che facciamo. A quarant’anni siamo un’organizzazione matura, con tante esperienze e credibilità, ma è importante continuare a interrogarci su come superare la contraddizione tra sogno e regole, su come decolonizzare il nostro sguardo, su come essere sempre più sistemici nel promuovere il cambiamento. Ops… dovevo parlare di bilanci. Dai, sarà per la prossima volta!

Giulia:
Ringraziamo Francesca Pieraccini la nostra direttrice generale per questo “non-bilancio” e vi ricordiamo che i corsi della scuola COSPE sono attivi tutto l’anno e vi daranno basi teoriche e pratiche per lavorare nella cooperazione internazionale. Scoprite i corsi su scuola.cospe.org

Per chiudere la nostra puntata di presentazione abbiamo raccolto alcune voci di colleghe e colleghi che hanno visto crescere COSPE in questi quarant’anni.

Audio testimonianze.
1) Sono Silvia Ricchieri e lavoro con COSPE dal 1984. Allora creammo il COSPE dai comitati della pace. Eravamo dei comitati di strada che lottavano contro gli F16 (si chiamavano allora, ora siamo siamo arrivati agli F40 credo). Creammo COSPE mettendo insieme tanti comitati di solidarietà, con il Salvador, il Nicaragua, il comitato anti-haparteid e il comitato di solidarietà con l’Eritrea, con il quale ho conosciuto il mio attuale marito. Ora ho una certa età e quindi ormai lavoro abbastanza poco con COSPE, sto andando in pensione. Adesso mi trovo a seguire due progetti a Capoverde, però continuo a sostenere la lotta delle donne afghane. COSPE ha avuto tanti progetti in questo ventennio durissimo dell’Afghanistan, ma in cui comunque  si poteva fare qualcosa. Erano progetti di sostegno alle donne afghane e ai difensori dei diritti umani. Ora non è più possibile fare niente, ma continuiamo a sostenerle con la solidarietà o piccoli fondi.
2) Sono Umiliana e lavoro nel dipartimento amministrazione. In particolare coordino il gruppo di persone che si occupano della gestione amministrativa dei progetti. Sono rientrata al COSPE da poco più di un anno. “Rientrata” perché sono una vecchia frequenza. Ho conosciuto il COSPE nel 1987, sono partita come volontaria per fare uno stage in Senegal. Dovevo andare in Gambia, ma all’ultimo mi hanno dirottato sul Senegal. Non parlavo nemmeno una parola di francese. Sono andata in Casa Mans, che è il Sud del Senegal, ospite di COSPE (lavorativamente, ma anche come ospite del personale di COSPE che lavorava lì in quel momento). Da allora per anni ho lavorato per COSPE all’estero, in sede, occupandomi anche di aree diverse, non solo in Africa Occidentale, da dove sono emigrata nella parte medio orientale. Poi sono caduta ad occuparmi di questioni amministrative. In questi ultimi mesi che vediamo molto Andrea Natali che si aggira per l’ufficio – perché la persona che si è occupato dei lavori di ristrutturazione – ho pensato spesso a quando era il responsabile della logistica COSPE. All’epoca implementare – ad esempio ricordo il Niger, ma anche Capo Verde – in cui gli acquisti di materiali venivano fatti qua e c’era poi tutta la spedizioni e c’erano le continue incomprensioni con Andrea su quello che volevamo, anche perchè comunicavamo con dei tanks (una sorta di telegrammi, che per i giovani sono roba preistorica), che in alcuni casi dovevamo anche fare un sacco di strada per raggiungere. Ad un certo punto c’erano questi scambi in cui era abbastanza facile non capirsi su quello che si voleva. Un mondo completamente diverso. Quanti sono? Sono 35 anni da quando ho cominciato. La passione però è rimasta la stessa, delle persone e le caratteristiche distintive del COSPE – anche avendo fatto nel tempo scelte di coerenza che abbiamo pagato, rispetto ad altre ong –. Ho sempre apprezzato molto che COSPE abbia mantenuto un’identità molto forte su questo. Tra poco saranno 40 anni dalla fondazione di COSPE, quindi è inevitabile pensare alla persona che ha dato vita per tanti anni a COSPE: Luciana Sassatelli. Per me è stata la persona che mi ha insegnato a lavorare. Quando sono arrivata, dopo essere uscita dall’università, per me era un mondo tutto nuovo, per me è stata una fonte di ispirazione molto forte. Lei e i primi capi progetto che ho avuto in Senegal e che mi sono portata dietro come bagaglio. A maggior ragione Luciana, perchè era una donna e quindi forse, rispetto al capo progetto che ho avuto, c’era una maggiore condivisione di una serie di sentimenti e di punti di vista sulle cose.
3) Sono Gianni Gravina. Lavoro al COSPE dal 1995 e negli anni mi sono occupato di vari questioni, dai progetti di cooperazione internazionale nei Balcani, dove abbiamo cominciato a lavorare prima in Albania, a seguito delle rivoluzioni che ci furono a metà degli anni novanta, e poi in Bosnia Erzegovina a seguito della guerra che patì all’inizio degli anni novanta. Mi sono occupato anche dei temi in Italia degli inserimenti socio-lavorativi soprattutto dei minori stranieri non accompagnati. Oggi mi occupo ancora di questo tema, ma comincerò a lavorare anche sui temi della gestione delle risorse umane, delle persone che lavorano qui all’interno del COSPE. Il mio primo ricordo al COSPE…? Il mio primo colloquio con Giancarlo Malavolti, che all’epoca era il segretario generale del COSPE, in cui parlammo delle mie aspettative e di cosa avrei voluto fare. Quello che più mi colpì fu l’apertura mentale di Giancarlo rispetto alle proposte che io portavo all’epoca e l’idea di inserire questo nuovo gruppo di giovani aspiranti cooperatori/lavoratori del COSPE che in quegli anni avevano cominciato a prendere contatto con questa organizzazione. Molti di loro sono ancora al COSPE: Fabio Laurenzi, Anna Meli, Camilla Bencini e tanti altri.
4) Sono Sara Malavolti e sono l’assistente del dipartimento programmi estero, ormai in questo ruolo da vari anni. Però a COSPE ho fatto varie cose. Sono arrivata nel 1996, se non mi sbaglio, per fare una sostituzione alla segreteria. Dovevo stare solo un mese. Raffaella – la segretaria dell’epoca e anche attuale – era impegnata in altre attività e quindi mi avevano chiamato per fare una sostituzione. E poi… da cosa nasce cosa, sono rimasta fino ad oggi. Ho assistito anche al trasloco di COSPE da via della Colonna a dove siamo attualmente. Mi sono occupata anche dei corsi di italiano L2 al Centro Gandhi, per un periodo… un bel periodo, anche coi bambini. Era un lavoro che mi piaceva molto. Ho lavorato per molto del dipartimento che si occupava delle attività in Italia. Poi, non so bene quando, sono passata sull’estero e sono rimasta lì.

Pamela:
Avete ascoltato il numero zero di Jojoba, il podcast di COSPE.

CHIUSURA: Jojoba è una pianta che nasce e cresce nel deserto, può vivere fino a 200 anni e non appassisce mai. Jojoba è come COSPE, resistente, longeva e green e capace di rinnovarsi. Piantala.

Trailer 2 – Daniela Morozzi

Jojoba è una pianta resistente, nasce e cresce nel deserto e può sopportare temperature estreme, Jojoba è una pianta longeva, può vivere fino a 200 anni. Jojoba non appassisce mai.

Dal 1985 fino al 1992 è stata anche la prima newsletter cartacea di COSPE. Per i nostri 40 anni abbiamo dato lo stesso nome al nostro primo podcast.

Jojoba: notizie, eventi, interviste, testimonianze, campagne e approfondimenti da tutto il mondo.

Jojoba è online ogni ultimo venerdì del mese.

Jojoba è come COSPE, resistente, longeva, green e capace di rinnovarsi.

PIANTALA.

Trailer

Jojoba è una pianta resistente, nasce e cresce nel deserto e può sopportare temperature estreme, Jojoba è una pianta longeva, può vivere fino a 200 anni. Jojoba non appassisce mai.

Dal 1985 fino al 1992 è stata anche la prima newsletter cartacea di COSPE. Per i nostri 40 anni abbiamo dato lo stesso nome al nostro primo podcast.

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